Bison Giuseppe Bernardino (Palmanova 1762 – Milano 1844). Pittore

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Giuseppe Bernardino Bison (Palmanova 1762 – Milano 1844), Piazza Vecchia a Trieste nel 1820

Giuseppe Bernardino Bison (Palmanova 1762 – Milano 1844), " Piazza Vecchia a Trieste nel 1820 ", tempera su cartone, cm 22,5 x 33.
Trieste, Civico Museo Revoltella (inv. 54)
L’opera, da cui fu tratta un’incisione pubblicata in " I nostri nonni " di Giuseppe Caprin, venne acquistata dal museo triestino nel 1874.

Album dedicato all’artista

Formatosi all’Accademia di Venezia sotto la guida di Costantino Cedini, Bison lavorò inizialmente come pittore di teatro con Antonio Mauro, dal quale apprese i fondamenti tecnici delle esecuzioni rapide e lo spiccato gusto scenografico, destinato a perdurare come elemento caratterizzante della cultura figurativa bisoniana. Nell’ultimo decennio del Settecento collaborò con l’architetto Giannantonio Selva (decorazioni del distrutto palazzo Bottoni di Ferrara [1787] e del “Casino Soderini” di Treviso [1798]) e, all’inizio dell’Ottocento, si trasferì a Trieste, forse a seguito dello stesso Selva impegnato nel concorso per il Teatro Nuovo. Nella città giuliana Bison ottenne commissioni prestigiose, come la decorazione del palazzo della Borsa e del palazzo Carciotti. Fra Trieste, Gorizia, Lubiana e l’Istria, l’artista si impose per la pittura rapida, che coniugava l’eredità dei frescanti veneti del Settecento alle doti di figurista e ornatista, scenografo e paesaggista. Nel 1824 l’Accademia veneziana lo nominò socio onorario con l’encomio di “pittore di bella immaginativa e spiritosa esecuzione”. Dopo una permanenza quasi trentennale a Trieste, Bison si trasferì a Milano (1831), dove fu appoggiato, sul piano economico e su quello dell’amicizia, dall’ingegnere Raffaello Tosoni di Cetona, esperto d’arte che fece ottenere all’artista il primo invito alla mostra di Brera (1833).
Giuseppe Bernardino Bison, operoso fino agli ultimi giorni, si spense a Milano il 28 agosto 1844.

Lo stile pittorico

“La vicenda artistica di Bison sembra essersi attivata sotto la spinta di una tensione sostenuta da uno stile che nella sensibilità per la buona pittura ricerca un assunto tale da preservarla dalle eleganze e dalla misura formale del gusto neoclassico, affermatosi in quegli anni, e che nella pratica artistica del maestro corrisponde ad una sostanziale divergenza nei confronti delle tendenze più moderne. L’impossibilità di identificare l’arte di Bison con le «avanguardie» del tempo parte, a ben guardare, sin dalle origini della sua formazione a Venezia.
L’Accademia veneziana al Fonteghetto della Farina non forniva in quegli anni le migliori occasioni per aggiornarsi sulle più avanzate tendenze classicistiche. Significativamente proprio nell’autunno del 1779, quando Bison si accingeva ad entrarvi, Canova lasciava l’Accademia e Venezia per raggiungere Roma, dove avrebbe trovato le manifestazioni più complete della cultura europea di quei decenni” (Magani 1993).
“Nel noto dipinto di Bison Gruppo di figure in un interno di palazzo Pola (Treviso, Museo Civico) risalta la doppia specialità dell’artista, che si applicò tanto alla produzione di genere (e la scenetta qui situata al centro della composizione ne è un esempio) quanto alla misura monumentale della decorazione ad affresco: l’interno qui raffigurato esibisce infatti pareti e soffitto interamente decorati da scene mitologiche e da rigogliosi motivi d’ornato a monocromo di gusto classicistico. […] È nella terraferma che l’artista ha le maggiori opportunità d’esprimersi in questo campo. Anzitutto a Padova, in palazzo Maffetti (poi Manzoni), dove lavora in due ambienti forse intorno al 1790. In città era tutto un fiorire di nuove decorazioni, a opera di figuristi come Novelli e Canal, e di ornatisti come Paolo Guidolini e Lorenzo Sacchetti. Specie certe invenzioni di quest’ultimo rivelano singolari affinità con quelle di Bison, come le sopraporte di palazzo Da Rio, con aquile poste a custodire antichi medaglioni. Nel salone di palazzo Maffetti l’artista combina la tradizione di ascendenza tiepolesca, palese nel brano di figura del soffitto – La Virtù incorona la Nobiltà – con i dettami del «moderno» decorare, recependo quelle istanze del classicismo tardosettecentesco già diffuse nei palazzi di città e negli interni di villa. […] Verso il 1791-92 lo troviamo impegnato nelle decorazioni di villa Raspi (poi Tivaroni) a Lacenigo, e nella villa di Jacopo Spineda a Breda di Piave, entrambe nel trevigiano. […] È il mondo della scenografia che si riversa in questi interni, quale era stato creato da Andrea Urbani, da Chiarottini, da Antonio Mauro III (Bison lo ebbe maestro dell’Accademia e con lui lavora a Padova nel Teatro Nuovo), da Francesco Fontanesi (il decoratore della sala teatrale della Fenice): un mondo manifestamente illusorio, che vive di riverberi di luce colorata, di sorprese, per sedurre lo sguardo e tener desta l’attenzione, in cui serpeggia liberamente lo spirito del capriccio, alla fine di un secolo che del capriccio aveva fatto una bandiera. […] Il ciclo di affreschi di Breda di Piave è certo il capolavoro di Bison, nel quale la fantasia inventiva e cromatica dell’artista si estrinseca felice, anche per la scelta di applicare alla pittura murale una tonalità minore, così da farne una pittura da stanza, equivalente alla musica da camera: proprio una delle esperienze più gratificanti è il passare di ambiente in ambiente lasciandosi sorprendere di continuo dal fuoco d’artificio delle trovate. Alla fine, dopo tanta eccitazione visiva, può restare nel ricordo, come dopo un sogno, «uno sbocciare fresco di petali, una liquida macchia d’ombra, il muoversi arioso d’un nastro»” (Pavanello 1997).
“Nonostante la sua formazione e permanenza a Venezia, circa fino allo scadere del secolo, finora si ha notizia di pochissimi interventi di tale natura nella Serenissima, e precisamente due stanze in coppia con Costantino Cedini nel mezzanino di palazzo Giustinian Recanati alle Zattere (1793) e alcune decorazioni a palazzo Dolfin Manin (1800)” mentre nel Palazzo Bellavite spetta, tra l’altro, a Bison anche “la continua teoria di coppie di animali affrontati, divisi da bucrani inghirlandati, da candelieri e da palmette e tutta collegata, senza soluzione di continuità, da sottili girali ingentiliti da racemi con foglie e bacche, capaci di rendere unitario un originalissimo e vario bestiario. Partorito da una fervida fantasia compositiva, non disgiunta da una vera passione zoologica, esso ribadisce che è nelle realizzazioni a ‘grottesca’, o comunque nei divertiti dettagli apparentemente secondari – tanto apprezzati nella sua grafica – che il Bison afferma i caratteri migliori del suo linguaggio” (De Feo 1997).
“Ma più che nella grande decorazione aulica ad affresco il Bison emerge, tra gli altri contemporanei, per la sua produzione di piccole tempere, quasi sempre di soggetto paesistico, eseguite con una bravura straordinaria e una fantasia inesauribile. Opere talvolta di carattere scenografico o ispirate ad altri pittori (Tiepolo, Canaletto, Zuccarelli, ecc.), ma più spesso d’invenzione propria. Pittura sovente descrittiva sì, ma realizzata sempre con una forma perfetta, con un tocco freschissimo e una tavolozza splendida, che non ha niente del «pittoresco», ma semmai dell’altamente «pittorico», sia che rappresenti una burrasca o un sereno paesaggio agreste. Una pittura spontanea e limpida, spesso aderente alla sostanza e ai fenomeni della natura, come osserviamo in certi paesaggi invernali o in altri raffiguranti l’estate sparsi d’abituri e di contadini ai lavori: paesaggi che ricordano quelli del lontano Marco Ricci, ai quali sovente sia per spirito che per qualità non sono inferiori” (Martini 1982).
“Il paesaggio idealizzato, in cui case, capanni, vegetazione, cielo e uomini convivono in una stagione senza tempo dove solamente una luce incontaminata li unisce, è il modo di Bison di proporre un’arcadia nella quale si profonde l’auspicio per il presente”. Altre volte invece “gigantesche architetture sprofondate nella natura circostante non appartengono ad una «veduta», ma costituiscono il pretesto per inventare una prospettiva illusionistica, seguendo gli insegnamenti della scenografia nel gioco dell’arco molto scorciato in primo piano che incrocia l’infilata di palazzi e antichi monumenti in cui si unificano stili diversi, così come avviene in una invenzione piranesiana” (Magani 1993).
L’arte di Bison attraversa il periodo neoclassico ma resta sostanzialmente legata a forme settecentesche dalle quali deriva quella tipica spontaneità e spigliatezza. Nel piccolo olio, Maschere, del Civico Museo Revoltella di Trieste, la scena d’intrattenimento “alimenta quello spirito nostalgico o il desiderio di confrontarsi con l’immaginario aristocratico del passato da parte della società borghese del primo Ottocento. La festa o, piuttosto, una «mascherata», è descritta nei più schietti modi veneziani settecenteschi ricordando, per la pungente e lucida osservazione, il contenuto della pittura di genere di Pietro Longhi, Francesco Guardi e Giandomenico Tiepolo, risolta dal maestro di Palmanova con sottili vibrazioni nel tratto…” (Magani 1997).
“È noto quanto fertile sia stata anche l’ultima pittura del Maestro, ormai anziano, operante a Milano: quadretti di maniera, ripensamenti giovanili ma anche quadretti di nuova, fresca, vena realistica, seppur cedenti alla moda corrente, al gusto dell’aneddoto, al prevalere di certa tematica – scene in conventi, frati in preghiera, vita claustrale – comune pure al Migliara (Zava Boccazzi 1971)”.

Daniele D’Anza

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