Trieste – Gli inizi del Comune
Giulio Bernardi
Torniamo al diploma di Lotario del 948. Esso segna una data importantissima nella storia, purtroppo lacunosa e oscura, della «civitas» triestina dell’alto medioevo. In pericolo d’esser travolti dal feudalesimo montante che li avrebbe aggregati a potenti principi d’oltralpe, i triestini si strinsero al loro vescovo, da loro stessi eletto e salutarono certo con gioia il privilegio che sottraeva la custodia delle mura, l’esazione delle imposte e dei dazi, l’amministrazione civile e la giudiziaria ad altro signore.
La vecchia classe degli «honorati», detti poi «boni homines et idonei» continua ad esercitare modeste funzioni amministrative, in posizione subalterna, ad esprimere dal suo seno i giudici di prima istanza nel civile, conservando e tramandando tenace il ricordo dell’antico municipio e della sua curia, le consuetudini, il sentimento di solidarietà economica e sociale. L’autorità vescovile non dava loro fastidio, finché il presule era eletto per lo più tra di loro o quantomeno con il loro concorso, ed essi avevano gran parte nel Capitolo e nella curia dei vassalli episcopali, finché, insomma, gli interessi e le persone del pastore, del clero e della classe dominante furono quasi i medesimi.
Ma pare che già Ricolfo (1007-1017) provenisse direttamente dalla chiesa di Eichstaett in Baviera e fosse investito dall’Imperatore. Così i suoi successori Adalgero (1031-1072) e Eriberto (1080-1082). Certo nei secoli XI e XII sempre più i vescovi assunsero il carattere di vassalli diretti dell’Impero. Ne conseguiva la partecipazione a campagne militari e politiche lontane che, stremando in gigantesche competizioni le loro energie e i redditi della diocesi, senza soddisfazione alcuna della città, interessavano solo pochi membri della «curia vassallorum». Ciò avviene in sintonia con la storia del patriarcato di Aquileia, il cui soglio pervenne in mano a famiglie tedesche, legate alla grande politica imperiale germanica, rimanendovi fino all’ elezione del patriarca Gregorio (1251-1269).
Il dissidio tra il vescovo e la cittadinanza si delinea, si acuisce e prende forma.
Destreggiandosi abilmente, i cittadini ottengono via via privilegi e riconoscimenti alla loro collettività, che, in pieno feudalesimo, è ormai un ente di fatto, non tutelato dai pubblici poteri.
In quest’oscuro periodo, nel quale cade il tramonto d’un assetto antico e rimpianto sempre, si formano e si stringono i nuovi interessi e i nuovi vincoli, si foggia e si rassoda la «civitas» novella. E’ peraltro noto che il Comune italiano non fu mai in possesso di tutti gli elementi originari che formavano la sovranità, ma che si appagava di un certo numero più o meno esteso di diritti sovrani, i quali garantivano lo sviluppo di un’ampia autonomia, senza raggiungere l’indipendenza assoluta: la piena sovranità fu conquistata solo tardi, da pochi Comuni e quando già il diritto comunale era in decadenza.
A Trieste già nel X secolo dunque accanto al vescovo signore esisteva una collettività abbastanza forte per essere apprezzata quale cooperatrice e fiancheggiatrice, con voce autorevole nel capitolo e nella curia dei vassalli vescovili. Negli scarsissimi documenti dell’epoca sono menzionati di solito il vescovo, o un suo ufficiale, e i rappresentanti della città. (G.B.)