Vipacco/Vipava: due rarissimi sarcofagi egizi provenienti dalla piramide di Kefren

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Vipacco/Vipava: nel piccolo cimitero si trovano due rarissimi sarcofagi egizi provenienti dalla piramide di Kefren nella piana di Giza e qui fatti portare da sir Anton Lavrin, figlio di un ricchissimo proprietario terriero della vallata, che dopo il 1834 fu console d’Austria in Egitto. I mastodontici sarcofagi destinati alla sua sepoltura nel paese natale, dopo il lungo viaggio in nave da Alessandria verso Trieste affrontarono un impervio percorso sul Carso trainati da una coppia di buoi. Il console fu invece sepolto in un ossario comune di Milano, dove morì nel 1869, così i preziosi sarcofagi vennero destinati alle spoglie dei suoi genitori e del figlio morto a soli 7 anni. (Foto da Staroegipčanskasarkofaga). Post di Gabriella Amstici.

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Personaggio a dir poco singolare, Anton Lavrin nasce il 21 gennaio 1789 a Vipava da famiglia contadina benestante. Dopo il liceo classico a Gorizia, studia teologia a Lubiana e successivamente giurisprudenza a Vienna, laureandosi nel 1816. Ottenuto un lavoro presso il Ministero del Commercio, per la sua conoscenza delle lingue, nel 1822 divenne amministratore consolare a Palermo, Napoli e Messina. Nel 1828, Console Generale d’Austria a Palermo; nel 1834 Console Generale d’Austria in Egitto, con dimora ad Alessandria. Nel 1841, intervenne abilmente in una disputa tra il sultano turco Mehmed II e il viceré egiziano Mohammed Ali, tanto che l’imperatore austriaco Ferdinando I gli conferì l’Ordine della Corona Ferrea di 3° classe e il titolo di cavaliere. Durante il suo servizio in Egitto aiutò i cristiani che vivevano a Gerusalemme, dove Lavrin si recava spesso; per questo papa Gregorio XVI lo insignì del titolo Dignitarius terrae sanctae (Dignità della Terra Santa). Lavrin era anche un appassionato studioso e collezionista di antichi monumenti egizi. Scrisse alcune relazioni su scavi e ritrovamenti e divenne membro degli istituti archeologici di Roma e Atene; membro onorario della Società dei Musei di Lubiana.Inviò gran parte della sua collezione egizia all’arciduca Massimiliano d’Austria per il suo castello di Miramare (anche la sfinge). Alla morte di Lavrin, molti dei reperti furono successivamente inviati al Museo di Storia dell’Arte di Vienna.Nel 1849 fu richiamato dall’Egitto e trasferito a Bucarest. Divenne poi consigliere ministeriale a Vienna nel 1854, dove rimase fino al pensionamento nel 1858. Per motivi di salute si trasferì a Milano, dove morì il 12 giugno 1869 e ivi venne sepolto. I due sarcofagi egizi in granito rosso, scoperti a Giza, di cui ne esistono solo sei al mondo, risalgono al 2450 a.C. circa. Lavrin ne tenne due per sé; dei quattro rimanenti uno è stato inviato al Cairo ed è oggi esposto (senza coperchio) nel cortile del Museo della città; uno è stato portato in Prussia e attualmente si trova a Hildesheim; uno è conservato al British Museum di Londra e infine, l’ultimo si trova al Museo Egizio di Torino. g.c. (Bibliografia di riferimento: Enciklopedija Slovenije; knjiga 6, Mladinska knjiga, Ljubljana, 1992)

Venezia Giulia di ieri e di oggi

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La Venezia Giulia (in tedesco Julisch Venetien; in sloveno e croato Julijska Krajina; in veneto Venesia Juia; in friulano Vignesie Julie) è una regione storico-geografica concettualmente definita nell’Ottocento al pari delle Tre Venezie; attualmente politicamente e amministrativamente è divisa tra Italia, Slovenia e Croazia, con la parte rimasta all’Italia dopo la seconda guerra mondiale in seguito ai trattati di pace di Parigi del 1947 e del Memorandum di Londra del 1954, che costituisce, insieme al Friuli, la regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia.
Il nome è stato ideato nel 1863 dal linguista goriziano Graziadio Isaia Ascoli per contrapporlo al nome Litorale, creato dalle autorità austriache nel 1849 per identificare una regione amministrativa più o meno coincidente. Il patrionimico dell’area è giuliano (plurale giuliani).

I territori che hanno fatto parte della Venezia Giulia (Gorizia con gli altopiani carsici tra il Vipacco e l’Idria – e a nord dell’Idria, tra l’Isonzo e Alpi Giulie, con l’estremità orientale della Carnia friulana -, Trieste e il suo entroterra carsico delle Alpi Dinariche, fino al Vipacco e al Timavo, Pola con la penisola istriana, Fiume con le isole del Quarnaro e in primis Cherso, Lussino e altre isole minori, nonché Veglia, pur esclusa dall’annessione al Regno d’Italia a seguito della Prima Guerra Mondiale), iniziarono ad essere indicati con tale denominazione nel 1918. Furono sede, in età protostorica, della cultura dei castellieri e subirono successivamente un intenso processo di romanizzazione.
In età medievale non ebbero una storia comune almeno a partire dal X secolo, dal momento che l’Istria costiera si legò a Venezia da stretti vincoli politici e culturali, mentre l’Istria interna iniziò a ruotare sempre più entro l’orbita Sacro Romano Impero e asburgica. Anche Gorizia e il Friuli orientale, per lungo tempo governate da una famiglia comitale, vassalla prima dello Stato patriarcale di Aquileia e poi di Venezia, caddero, alle soglie dell’età moderna, sotto il potere della casa d’Austria. Caso a sé stante è rappresentato da Trieste che prima di associarsi all’Austria (1382) fu città vescovile e poi libero comune. La Venezia Giulia, unita all’Italia nel 1918, fu in massima parte annessa, al termine della seconda guerra mondiale, alla Jugoslavia (per la precisione vennero ceduti 7.625 km² di territorio).

Antichità preromana e romana

L’attuale regione giuliana fu abitata fin da epoca preistorica. A Visogliano, nel Carso triestino e a Pocala (Aurisina) sono venuti alla luce resti che documentano attività litiche durante il Paleolitico inferiore e medio. La prima cultura stanziale autoctona fu tuttavia quella dei castellieri, che iniziò a svilupparsi durante l’età del bronzo tardio, per protrarsi fino alla conquista romana (II secolo a.C.), coprendo un arco di oltre un millennio. Non conosciamo le origini del popolo o dei popoli di agricoltori e pastori che inizialmente elaborarono tale cultura che, nata in Istria, si estese, col tempo, fino alla Dalmazia e al Friuli.
Di certo agli albori dell’età del ferro (X – IX secolo a.C. circa) etnie indoeuropee di stirpe venetica o illirica (Istri, Liburni e Giapidi) dedite, oltre che alle attività primarie, anche alla navigazione e alla pirateria, imposero il proprio dominio sul territorio, sostituendosi o mescolandosi alle genti autoctone. Tali etnie, a contatto con le colonie greche dell’Adriatico e con l’evoluto popolo venetico (o paleoveneto), crearono, a partire dal V secolo a.C., anche degli insediamenti con caratteristiche propriamente urbane. Fra questi, assunse particolare importanza la città di Nesactium, capitale della federazione degli Istri situata nei pressi dell’attuale Pola (a propria volta castelliere fra i più importanti dell’Istria). In epoca successiva sopravvennero anche i Carni, di stirpe celtica, che dalla Carnia discesero nel Carso, occupandolo fino al Vipacco e al Timavo nel 186 a.C.

L’incorporazione del territorio allo Stato romano avvenne nei cinque o sei decenni che seguirono la fondazione della colonia di diritto latino di Aquileia (181 a.C.), che, alle soglie dell’età imperiale, era già divenuta la quarta città più popolosa d’Italia, capitale della Venetia et Histria, e massimo centro di irradiazione della romanità non solo nelle future regioni giuliana, friulana e veneta, ma anche nel Norico mediterraneo e in Dalmazia. Nel 42 a.C. il confine dell’Italia romana fu stabilito al fiume Tizio (poi conosciuto come Cherca) includendo l’intera costa liburnica e l’estremità settentrionale della Dalmazia con Iadera (attuale Zara), ma nel 16 a.C., per ragioni militari, Ottaviano ne dispose l’arretramento all’Arsa, escludendo la Liburnia.
Se Aquileia fu indiscutibilmente la realtà urbana più importante e prestigiosa dell’Italia nord-orientale, non fu l’unica: fin da epoca augustea era andato sviluppandosi in zona un certo numero di nuclei urbani, alcuni dei quali di dimensioni ragguardevoli, come Tergeste, Pietas Julia e Tarsatica, sviluppatasi da un precedente importante castelliere liburnico sul fiume Eneo; anch’esse nacquero come colonie di diritto latino e servirono come poli di romanizzazione delle aree circostanti; Castrum Silicanum (Salcano) e Pons Aesontii (Mainizza) furono edificati nell’area dell’attuale Gorizia. Tutto lascia supporre che, nei primi secoli dell’era cristiana, le popolazioni stanziate nella futura regione giuliana (in parte di origine latina), erano permeate di romanità, la quale « […] per la profondità delle sue radici, per la durata nel tempo, non è punto diversa…rispetto alla romanità delle altre terre dell’Italia settentrionale, dal finitimo Veneto all’opposto Piemonte ».

Dopo la distruzione di Aquileia ad opera degli unni di Attila (452), il territorio perdette il suo centro organizzatore, divenendo baluardo estremo di latinità a ridosso di province ex-romane sempre più germanizzate. Nel 493 fu incorporato al regno ostrogoto da Teodorico. Al dissolvimento dello Stato ostrogoto, la massima parte della regione entrò nella sfera bizantina (territori a sud dell’Isonzo), salvaguardando o persino rafforzando la propria romanità nei due secoli e mezzo successivi di ininterrotta dominazione romano-orientale (539-787), mentre l’esigua parte restante fu occupata dai Longobardi allorquando questi invasero l’Italia (568). Il popolo franco, negli ultimi decenni dell’VIII secolo, si sostituì sia ai longobardi che ai bizantini, imponendo il proprio dominio sull’intero territorio, che inserì stabilmente nel Regnum Italicorum. In età ottoniana (X secolo) Trieste iniziò ad essere governata come entità autonoma dai suoi vescovi, per convertirsi in libero comune (XIII secolo), mentre i centri abitati della costa occidentale dell’Istria si orientavano sempre più verso Venezia, non soggetta all’autorità del sacro romano impero e in piena espansione demografica ed economica ancor prima dell’anno 1000. Il resto del territorio giuliano (Friuli orientale, Istria interna, ecc.) restò invece vincolato, in maggiore o minor misura, al Sacro Romano Impero, anche quando i Patriarchi di Aquileia, sul finire dell’XI secolo ottennero dall’imperatore Enrico IV l’investitura della Contea d’Istria, del Ducato del Friuli (1077) e il titolo di Principi (da qui il nome di Principato ecclesiastico di Aquileia).
Come loro “avvocati” (cioè vassalli), detennero il potere nel Friuli orientale (oltreché in Tirolo e in altre zone d’Italia e Austria) i Lurngau, conti di Gorizia, centro abitato nato agli albori del secondo millennio a ridosso di una regione abitata prevalentemente da genti slave. Queste ultime, presenti in zona fin da epoca bizantina e longobarda, si diffusero, nei secoli successivi, in quasi tutti i territori che poi avrebbero conformato la Venezia Giulia: Croati a sud, nell’Istria interna e orientale, oltre che nell’entroterra fiumano e nel Quarnero; Sloveni nell’estremo lembo settentrionale dell’Istria, nel Carso triestino e nel Friuli orientale. Fu, quella slava, un’immigrazione di carattere rurale che coinvolse solo marginalmente i centri abitati maggiori, popolati in massima parte da gruppi etnici autoctoni di origine italica o comunque romanica (veneti, friulani, dalmati, ecc.).

Il passaggio della contea di Pisino agli Asburgo (1374), la libera associazione di Trieste alla casa d’Austria, (1382), l’incorporazione di Fiume agli Stati asburgici (1471), la cessione della Contea di Gorizia all’imperatore Massimiliano (1500), unitamente al dominio diretto di Venezia sulle isole del Quarnero e su tanta parte dell’Istria (affermatosi progressivamente fra il XII e il XV secolo), oltreché su alcune zone del Friuli orientale, fra cui Monfalcone (XV secolo), vennero sempre più a conformare due blocchi all’interno del futuro territorio giuliano: uno asburgico e l’altro, di dimensioni più contenute, veneto.
Tale suddivisione si protrasse fino agli ultimi anni del Settecento, allorquando, con il trattato di Campoformido (1797), anche le città e i territori veneti passarono all’Austria. Quest’ultima, circa vent’anni prima aveva ceduto Fiume all’Ungheria (1776-1779). In età napoleonica il nuovo ordine territoriale della regione fu temporaneamente sovvertito, ma nel 1814-1815 l’Austria rientrò in possesso di tutti i territori che avrebbero successivamente fatto parte della Venezia Giulia.
In tale ampio arco di tempo la composizione etnica e linguistica della popolazione che abitava la regione non subì trasformazioni sostanziali, con l’elemento italiano predominante in tutte le realtà urbane di una certa entità (Gorizia, Gradisca, Trieste, Capodistria, Pola, Fiume, ecc.) e quello slavo, maggioritario invece nei piccoli centri agricoli e nelle campagne, rafforzatosi ulteriormente in alcune zone, e in particolare nella penisola istriana, durante i primi due secoli dell’età moderna (sia per effetto dell’avanzata turca che a causa dei vuoti lasciati da alcune catastrofiche pestilenze. L’immigrazione di croati e sloveni, unitamente a quella di albanesi e di valacchi, fu all’epoca incoraggiata dalle autorità locali). Per quanto riguarda la componente germanica, impiegata soprattutto nella pubblica amministrazione e nell’esercito, subì un certo incremento nelle città in età teresiana e giuseppina, dovuto al processo di modernizzazione e burocratizzazione dello Stato austriaco, senza però riuscire mai costituire gruppi minoritari di una certa consistenza, soprattutto a Trieste.
Una regione contesa. La questione relativa al nome delle terre ai confini fra il Regno d’Italia e l’Impero austriaco fu indicativa d’una situazione nella quale si venivano radicalizzando le varie pulsioni nazionali.
Nei primi sessant’anni del XIX secolo l’Impero Austriaco conobbe una serie di modificazioni territoriali, che si accompagnarono a varie modifiche di carattere costituzionale e amministrativo. All’interno delle terre definite successivamente da Graziadio Isaia Ascoli come Venezia Giulia, nel 1816 sul modello delle Province illiriche napoleoniche si decise la costituzione del Regno di Illiria (Königreich Illyrien), diviso in due governatorati con Lubiana e Trieste come capoluoghi. La Contea di Gorizia e Gradisca (Gefürstete Grafschaft Görz und Gradiska), le due Istrie (quella già veneziana e quella già asburgica) e le tre isole del Quarnaro – Veglia, Cherso e Lussino – fino a quel momento parti della Dalmazia storica, rientravano sotto la giurisdizione di Trieste. Nel 1825 i due circoli istriani vennero uniti in uno solo, con capoluogo Pisino. A quella data Gorizia, con l’Istria e Trieste, costituiva il Litorale (Küstenland) del Regno d’Illiria, che era completato a nord dai Ducati di Carinzia e di Carniola (Herzogthümer Kärnthen und Krain).
I rivolgimenti nazionali interni all’Impero si ripercossero anche in queste regioni: nel 1848 ad un risveglio nazionale di carattere italiano in Istria fece riscontro un contemporaneo risveglio nazionale sloveno, prevalentemente nei territori dei Ducati di Carinzia e di Carniola. Gli sloveni, popolazione maggioritaria del regno d’Illiria, proposero di includere all’interno dei confini del suddetto regno anche ampie parti della Stiria, in modo da unire tutte le terre considerate slovene in un’unica unità amministrativa. Il geografo sloveno Peter Kozler disegnò una mappa (“Mappa delle terre e regioni slovene” – Zemljovid Slovenske dežele in pokrajin), in base alla quale si sarebbero dovuti ridefinire i confini illirici in modo che potesse nascere un grande stato di nazionalità slovena. Egli inserì fra le terre slovene anche parti del Friuli orientale e l’intera costa adriatica fino a Monfalcone, prevedendo l’inserimento all’interno dei confini anche della zona di Grado. La mappa è tuttora considerata fra i massimi simboli del nazionalismo sloveno.
Nella nuova costituzione austriaca del 4 marzo 1849 queste terre vennero nuovamente chiamate Regno di Illiria (Königreich Illyrien, o anche Illirien), ma nel corso dello stesso anno – nell’ambito della fase neoassolutistica dell’Impero, che portò all’annullamento prima di fatto e poi di diritto della costituzione – il Regno d’Illiria venne abolito e sostituito da un sistema più articolato: vennero riformate le Province della Corona, le quali a loro volta furono inserite – per quanto riguarda quella che successivamente fu la parte austriaca dell’Impero – in quattordici Regni (Königreiche) e Regioni (Länder). Si creò così il Litorale Austro-Illirico (Österreichisch-Illyrische Küstenland), come mera suddivisione amministrativa, non dotata però di proprie istituzioni rappresentative se si esclude la presenza a Trieste – considerato capoluogo della regione – di un luogotenente imperiale con competenza sull’intero territorio: a partire dal 1861 – invece – le tre terre costituenti il Litorale ebbero ognuna un proprio parlamento locale (Dieta), nominato in base a regolari elezioni.
Tralasciando la limitata presenza tedesca nell’area, in senso generale si può affermare che nelle zone identificate da Ascoli come Venezia Giulia si svilupparono due diverse dimensioni nazionali: quella italiana e quella slava (slovena e croata), che nel tempo scatenarono un antagonismo a tutto campo, che comprese anche la definizione del nome geografico di queste terre di confine. Ciò si riflette anche sull’attuale nome ufficiale dei territori sloveni già facenti parte della Venezia Giulia italiana, chiamati Primorska (Litorale) e riprendendo quindi la definizione austriaca, nata nella prima metà del XIX secolo. Per motivi meramente statistici (senza quindi alcun valore amministrativo né geografico), questa parte della Slovenia oggi è divisa nelle due regioni statistiche del Goriziano sloveno (Goriška) e Carsico-litoranea (Obalno-kraška). Il nome storico di “Istria” in Slovenia ha quindi oggi solo una valenza storico-geografica.
Come conseguenza della terza guerra d’indipendenza italiana, che portò all’annessione del Veneto al Regno d’Italia, l’amministrazione imperiale austriaca, per tutta la seconda metà del XIX secolo, aumentò le ingerenze sulla gestione politica del territorio per attenuare l’influenza del gruppo etnico italiano temendone le correnti irredentiste. Durante la riunione del consiglio dei ministri del 12 novembre 1866 l’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria tracciò un progetto di ampio respiro mirante alla germanizzazione o slavizzazione dell’aree dell’impero con presenza italiana:
«Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno. Sua maestà richiama gli uffici centrali al forte dovere di procedere in questo modo a quanto stabilito.»
(Francesco Giuseppe I d’Austria, consiglio della Corona del 12 novembre 1866.)
Queste ingerenze, insieme ad altre azioni di favoreggiamento al gruppo etnico slavo ritenuto dall’impero più fedele alla corona, esasperarono la situazione andando ad alimentare le correnti più estremiste e rivoluzionarie.
 

La prima definizione della Venezia Giulia

Il Litorale Austriaco (1897)
Fu quindi in tale complesso contesto storico e nazionale che il glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli propose nel 1863 di adottare – in alternativa a Litorale Austriaco – la denominazione di Venezia Giulia. La proposta non aveva finalità irredentiste: Ascoli aveva piuttosto l’intenzione di marcare l’italianità culturale della regione. Il nome derivava dalla Regio X, una delle regiones in cui Augusto divise l’Italia intorno al 7 d.C., successivamente indicata dagli storici come Venetia et Histria. Il suo territorio corrispondeva alle antiche regioni geografiche della Venezia e dell’Istria. L’Ascoli divise il territorio della Regio X in tre parti (le cosiddette Tre Venezie): la Venezia Giulia (Friuli orientale, Trieste, Istria, parti della Carniola e della Iapidia), la Venezia Tridentina (il Trentino e l’Alto Adige) e la Venezia Propria (Veneto e Friuli centro-occidentale). È da tener presente che nel momento in cui l’Ascoli suggeriva il nome Venezia Giulia tutte queste regioni facevano parte dell’impero d’Austria. La stessa Venetia et Histria era inoltre più vasta del territorio che l’Ascoli definiva con il termine di Venezie, comprendendo anche le attuali province lombarde di Brescia, Cremona e Mantova.
Ecco come l’Ascoli ripartì il territorio, identificando di conseguenza la Venezia Giulia:
«Noi diremo “Venezia propria” il territorio rinchiuso negli attuali confini amministrativi delle province venete; diremo “Venezia Tridentina” o “Retica” (meglio “Tridentina”) quello che pende dalle Alpi Tridentine e può avere per capitale Trento; e “Venezia Giulia” ci sarà la provincia che tra la Venezia Propria e le Alpi Giulie e il mare rinserra Gorizia, Trieste e l’Istria. Nella denominazione comprensiva “Le Venezie” avremo poi un appellativo che per ambiguità preziosa dice classicamente la sola Venezia Propria, e perciò potrebbe stare sin d’ora, cautamente ardito, sul labbro e nelle note dei nostri diplomatici. Noi ci stimiamo sicuri del buon effetto di tale battesimo sulle popolazioni a cui intendiamo amministrarlo; le quali ne sentono tutta la verità. Trieste, Roveredo, Trento, Monfalcone, Pola, Capodistria, hanno la favella di Vicenza, di Verona, di Treviso; Gorizia, Gradisca, Cormons, quella d’Udine e di Palmanova. Noi abbiamo in ispecie ottime ragioni d’andar sicuri che la splendida e ospitalissima Trieste s’intitolerà con gaudio orgoglio la Capitale della Venezia Giulia. E non ci resta che di raccomandare questo nostro battesimo al giornalismo nazionale; bramosi che presto sorga il dì in cui raccomandarlo ai Ministri e al Parlamento d’Italia e al valorosissimo suo Re.»
(Graziadio Isaia Ascoli, “Le Venezie”, 1863)
Gli irredentisti italiani non furono mai concordi sui territori che avrebbero dovuto essere oggetto delle rivendicazioni nazionali sul confine orientale. Per molti aderenti o futuri aderenti al movimento irredentista, e anche per alcune personalità politiche non ascrivibili a tale movimento (fra cui Giuseppe Mazzini e il liberale di idee moderate Ruggiero Bonghi), il Litorale Austriaco avrebbe dovuto entrare a far parte, interamente o nella sua quasi totalità, del giovane Regno d’Italia. Altri ritenevano invece che anche la Dalmazia costiera facesse parte delle “terre irredente”. Le rivendicazioni più estreme di questi ultimi presero piede soprattutto a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo, ma furono politicamente fatte proprie dal Regno d’Italia solo negli anni che precedettero la Grande Guerra.

La denominazione ascoliana non si impose tuttavia con immediatezza, anche se alcuni irredentisti iniziarono ad utilizzarla in conferenze e testi fin dagli anni ottanta dell’Ottocento. Tali territori furono infatti definiti, oltre che Venezia Giulia, in molte maniere: Litorale Veneto orientale, Litorale triestino, Litorale Veneto Istriano, Istria e Trieste, Litorale delle Alpi Giulie, Frontiera orientale e Regione Giulia.
Ai primi del Novecento la contrapposizione ideologica tra irredentisti italiani e lealisti asburgici (in massima parte appartenenti al gruppo etnico tedesco e a quelli sloveno e croato) iniziò ad esprimersi anche sotto un profilo terminologico: i secondi preferivano continuare ad usare la denominazione Litorale Austriaco, mentre i primi rivendicavano la legittimità della definizione di Venezia Giulia. Esemplare in questo senso è la diatriba tra il conte Attems – rappresentante del governo austriaco a Gorizia – e l’irredentista Gaetano Pietra. Il primo nel 1907 negava decisamente l’esistenza di una Regione Giulia:
«Finalmente non posso fare a meno di contestare la legalità della denominazione di Regione Giulia ai nostri paesi, denominazione inammissibile poiché la Contea Principesca di Gorizia-Gradisca con il Margraviato d’Istria e con la città immediata di Trieste costituiscono il Litorale ma non la Regione Giulia.»
Pietra si era opposto dicendo che:
«A noi suona meglio il nome di Venezia Giulia perché ha in sé tutta l’armonia delle memorie! e noi, lo diciamo anche altrove, sentiamo tutta la tenerezza delle memorie patrie! D’altronde abbiamo anche un convincimento: L’aquila ha battuto alte le penne dalle nostre alpi al mare nostro, e tutta ancora la terra risuona della voce della grande madre latina — l’artiglio del leone ha stampato la sua impronta sul petto degli abitanti e l’anima della Dogale palpita nel cuore dei popoli! Ora di tali fatti compiuti, pur sopprimendo anche nel nome gli ultimi esteriori vestigi rimangono le profonde indelebili impressioni nelle coscienze! E noi siamo sicuri della coscienza nazionale di nostra gente per preoccuparci, come ha mostrato d’altro canto il rappresentante del governo, perché il nostro paese venga indicato, da chi proprio lo desidera, con un nome, secondo noi, meno eufonico di Venezia Giulia e sia pure non di nostra favella!»
Solo agli inizi del Novecento si venne sempre più imponendo la denominazione di Venezia Giulia. In Friuli, la denominazione di Venezia Giulia non veniva avvertita negativamente, tant’è vero che la rivista udinese Pagine Friulane recensì in termini molto positivi la ristampa dell’opera del liberale Bonghi intitolata proprio Venezia Giulia. Se è vero che gran parte della classe dirigente friulana di allora non si oppose al nome Venezia Giulia, è però da ricordare che alcuni intellettuali friulani fin da quegli anni rivendicavano un’autonomia all’interno dello Stato italiano (o anche al di fuori di esso). Com’è noto, durante il ventennio fascista gli avvenimenti presero una piega che rese irrealizzabili non solo tali aspirazioni, ma anche lo sviluppo della vita democratica e delle libertà civili e politiche in tutta l’Italia.
Al termine della prima guerra mondiale, considerata da taluni l’ultimo atto del risorgimento nazionale la denominazione di Venezia Giulia venne ad essere adottata in forma semiufficiale per designare tutti i territori ad est del Veneto precedentemente posti sotto sovranità austriaca e annessi dall’Italia. Questi comprendevano, oltre a tutto l’ex Litorale Austriaco (tranne il comune istriano di Castua e l’isola di Veglia, andati al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), alcune zone della Carniola (i distretti di Idria, Postumia, Villa del Nevoso e alcuni villaggi del Tarvisiano) e della Carinzia (la maggior parte della Val Canale), nonché in certi contesti la città dalmata di Zara. Il Tarvisiano e ad alcuni comuni della bassa friulana ex-austriaca (Cervignano, Aquileia, ecc.), furono però incorporati nella prima metà degli anni venti nella Provincia di Udine (anche se solo a partire dal 1925 iniziarono ad apparire in tutte le mappe ufficiali o semiufficiali e nelle rilevazioni statistiche come facenti parte di tale provincia), e vennero in tal modo a perdere, anche nell’immaginario collettivo, le proprie connotazioni giuliane, mentre Fiume, annessa al Regno d’Italia nel 1924 passò a formar parte a pieno titolo della Venezia Giulia. Il 5 giugno del 1921 il Regno d’Italia emetteva una serie di francobollo detta appunto Annessione della Venezia Giulia per commemorare tale avvenimento.
Anche durante il fascismo la denominazione di Venezia Giulia venne utilizzata inizialmente per designare l’insieme dei territori annessi all’Italia dopo la Prima guerra mondiale lungo il confine con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (successivamente divenuto Regno di Jugoslavia): una buona esemplificazione di questo concetto di Venezia Giulia è data dalle mappe pubblicate postume da Marinelli nel 1920 integrando manoscritti di Cesare Battisti. Tale territorio è la sommatoria di parti di diverse zone geografiche (Trieste, Istria, Friuli orientale, Carniola, Carinzia meridionale, ecc).
Nel corso dell’VIII Congresso Geografico Italiano (marzo-aprile 1921), venne votato all’unanimità un ordine del giorno – presentato dal geografo friulano Olinto Marinelli – col quale si chiedeva che il nome di Venezia Giulia (o altro equivalente) avesse “d’ora innanzi a comprendere, oltre ai territori redenti, anche l’intero territorio friulano”. Il nome proposto dal congresso fu “Regione Giulia”, ritenendo quindi superata la denominazione ascoliana. A partire da questa determinazione, il nome Venezia Giulia andò quindi a identificare, per alcuni geografi, le province del Friuli (Udine), Gorizia, Trieste, Istria (Pola) e la Liburnia (Carnaro). Lo stesso avvenne anche nelle edizioni del Touring Club Italiano: si veda in tale proposito la mappa della Venezia Giulia – comprendente il Friuli – pubblicata dal TCI nel 1928. La Treccani, massima espressione della cultura italiana del tempo, non recepì tuttavia gli orientamenti della Reale Società Geografica Italiana e continuò ad inserire la Provincia del Friuli nel Veneto (Venezia Euganea). Allo stesso modo, anche l’Istituto Centrale di Statistica, nei suoi rilevamenti, considerò tale provincia, agli effetti statistici, come facente parte della Venezia Euganea.

Mappa delle Tre Venezie
Il termine Venezia Giulia come unità amministrativa provinciale fu adottato ufficialmente solo per un breve periodo (fra l’ottobre 1922 e il gennaio 1923, prima che iniziassero a funzionare le appena create province di Pola e di Trieste). In Italia le Regioni come enti autonomi furono infatti istituite con lo Statuto speciale per la Sicilia (1946), prima, e la Costituzione repubblicana (1948) poi. Anteriormente a tali date le Regioni erano solamente realtà geografico-fisiche e statistiche, dal momento che sul piano politico-amministrativo l’Italia riconosceva solo tre enti territoriali: Stato, Province e Comuni. Durante il periodo fascista il termine di Venezia Giulia si utilizzò diffusamente e nei più svariati contesti (geografici, storici, socioculturali, ecc.). L’impiego reiterato di tale termine venne associato dalle minoranze etniche slovene e croate presenti sul territorio (e apertamente perseguitate dal regime) ad un evidente tentativo di cancellare anche nominalmente la propria presenza dalla Regione.
La politica fascista di italianizzazione forzata delle terre di recente conquista provocò l’emigrazione di un gran numero di tedeschi, sloveni e croati. Molti militari e funzionari pubblici, fra cui la quasi totalità degli insegnanti di lingua slovena e croata furono licenziati o allontanati in vario modo e sostituiti da italiani. L’emigrazione del bracciantato agricolo, dal resto d’Italia alla Venezia Giulia, fu irrilevante, mentre un certo numero di lavoratori dell’industria e di portuali trovarono impiego nei cantieri di Monfalcone, nella zona industriale di Trieste e nei porti di Trieste, di Pola e (successivamente) di Fiume.
Durante la Seconda guerra mondiale, dopo l’invasione della Jugoslavia nell’aprile 1941 da parte dell’Italia e della Germania, la Provincia di Fiume venne ingrandita e la Venezia Giulia si accrebbe dell’entroterra fiumano.
Come conseguenza dello smembramento della Jugoslavia nel 1941 si modificarono (e crearono) le seguenti Province del “Compartimento statistico della Venezia Giulia”:
la provincia del Carnaro (1924-1947) comprendeva Fiume, la Liburnia (con la città di Abbazia) e l’alta valle del Timavo (con la città di Villa del Nevoso). Dopo il 1941 la sua superficie verrà ampliata con l’inclusione di tutto l’entroterra orientale di Fiume, arrivando anche a comprendere le isole di Veglia e Arbe e la città di Buccari. Faceva parte del “Compartimento statistico della Venezia Giulia”.
la provincia di Lubiana (1941-1943) comprendeva la Slovenia centro-meridionale e aveva, essendo abitata da sloveni, come lingue ufficiali l’italiano e lo sloveno. Fu inclusa nel “Compartimento statistico della Venezia Giulia”.
la provincia di Zara (1920-1947) che comprendeva fino al 1941: il comune di Zara, e le isole di Cazza e Lagosta (distanti 200 km da Zara), Pelagosa (distante 250 km da Zara) e l’isola di Saseno, di fronte all’Albania a ben 525 km da Zara e faceva parte del “Compartimento statistico della Venezia Giulia”. Dal 1941 al 1943 la provincia comprendeva Zara e il suo entroterra, più le isole davanti a Zara che passarono sotto sovranità italiana, divenendo parte, assieme alle province di Spalato e Cattaro, del Governatorato della Dalmazia.
Nel settembre 1943 la Venezia Giulia fu occupata dalle truppe tedesche, pur senza essere formalmente annessa al Terzo Reich. Passò comunque in quello stesso mese a dipendere dal gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer, nominato per l’occasione commissario supremo del Litorale Adriatico.
 

La questione giuliana

Modifiche al confine orientale italiano dal 1920 al 1975.
Il Litorale austriaco, poi ribattezzato Venezia Giulia, che fu assegnato all’Italia nel 1920 con il trattato di Rapallo (con ritocchi del suo confine nel 1924 dopo il trattato di Roma) e che fu poi ceduto alla Jugoslavia nel 1947 con i trattati di Parigi.


Nel 1954 le truppe anglo-americane lasciarono la “zona A”, affidandone l’amministrazione militare all’Italia.
La diatriba tra Italia e Jugoslavia per la linea di demarcazione tra le due zone del territorio Libero ebbe risoluzione con il trattato di Osimo, del 10 novembre 1975. Alla fine della Seconda guerra mondiale la questione della Venezia Giulia fu oggetto di attenzioni internazionali, essendo le province di Zara, Pola, Fiume, Gorizia e Trieste (nonché parti della provincia di Udine) reclamate dalla Jugoslavia in quanto “terre slave”. In questo contesto si inserisce anche la nascita della definizione slovena Julijska krajina. In realtà già durante il ventennio fascista questo nome fu molto utilizzato dagli sloveni e croati dei territori annessi all’Italia, nelle denominazioni delle loro organizzazioni. Così ad esempio, nel 1932, l’associazione degli esuli sloveni e croati in Jugoslavia fu denominata “Unione degli emigranti jugoslavi dalla Julijska krajina”. Questa definizione non è, come spesso si crede, la traduzione slovena di “Venezia Giulia”, mancando la parola “Venezia”: è invece un nome creato dagli sloveni in alternativa all’osteggiato “Venezia Giulia”.
Dopo la seconda guerra mondiale la massima parte della regione è passata a Slovenia e Croazia, allora parti della Jugoslavia. In quel periodo si verificò l’emigrazione massiccia del gruppo etnico italiano (270.000 profughi circa secondo le stime del Ministero degli esteri italiano, 250.000 secondo le stime dell’Opera Profughi, 190.000 secondo gli studi condotti in Slovenia e Croazia, 301.000 secondo recenti studi storico-statistici), dovuta sia alle persecuzioni titine che ad altre cause, non ultime quelle di indole economica e sociale. Anche un certo numero di croati e di sloveni abbandonò la Venezia Giulia annessa e/o amministrata dalla Jugoslavia perché contrari al regime dittatoriale instaurato da Tito.

Con la fine della Seconda guerra mondiale e la costituzione della Repubblica Italiana, il nome Venezia Giulia fu utilizzato per la prima volta in una denominazione amministrativa ufficiale. Infatti la Costituzione repubblicana previde la creazione della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, nata dall’unione della Provincia di Udine (che allora comprendeva anche la Provincia di Pordenone, istituita solo nel 1966) con quello che rimaneva all’Italia delle terre conquistate alla fine della Prima guerra mondiale.
Il nome venne proposto dal deputato friulano Tiziano Tessitori, come alternativa alla denominazione Regione giulio-friulana e Zara, proposta dal triestino Fausto Pecorari.
La decisione di costituire una regione che contenesse anche la denominazione “Venezia Giulia” e che fosse retta da uno speciale statuto di autonomia, rispose ad una duplice motivazione: da un lato s’intendeva dare attuazione al dettato del Trattato di pace, per cui “per le minoranze etniche sono da accordarsi delle garanzie”, dall’altra si voleva indicare – anche simbolicamente – la speranza che Trieste e l’Istria venissero assegnate all’Italia, in un’auspicata revisione delle clausole del Trattato stesso.
Questa denominazione innescò per la prima volta nella storia una tensione tra la fazione autonomistica dei friulani (che reclamavano una regione esclusivamente propria) e Trieste. Tale tensione (che si acuì nei primi anni sessanta quando la Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia venne effettivamente costituita) si tradusse anche nell’opposizione da parte di alcuni esponenti friulani alla legittimità storica dell’uso del termine Venezia Giulia e in divergenze di pensiero sulla delimitazione dei due territori. Per i friulani – infatti – la Venezia Giulia attualmente corrisponderebbe alla sola provincia di Trieste, mentre per i triestini, invece, essa includerebbe anche la provincia di Gorizia (interamente o in gran parte). Va pertanto sottolineato che le due entità storico-territoriali possono considerarsi, almeno secondo alcune accezioni, parzialmente sovrapposte.

Oggi, quindi, la Venezia Giulia è per molti quanto rimane del Territorio Libero di Trieste assegnato all’Italia alla fine della seconda guerra mondiale e, secondo un’opinione diffusa, anche di parte di quella di Gorizia (in particolare la sua parte venetofona, e cioè la Bisiacaria), che pur faceva anticamente parte del Friuli storico. Per quanto riguarda Grado e Marano Lagunare, la loro appartenenza alla Venezia Giulia è oggetto di discussioni. Pur essendo infatti i due centri venetofoni, (Grado è la patria del massimo poeta italiano in lingua veneta del Novecento, Biagio Marin), furono anch’essi secolarmente legati al Friuli e allo stato patriarcale di Aquileia.


Come s’è già rilevato, il confine fra la parte giuliana e la parte friulana della regione Friuli-Venezia Giulia non è ben definito. Identificando in ipotesi la Venezia Giulia con i territori che giacciono ad est della provincia di Udine, questa attualmente comprenderebbe le province di Gorizia e di Trieste, nelle quali è concentrata la parte maggiore della minoranza slovena in Italia.
Nell’attuale Venezia Giulia l’Italiano, lingua ufficiale dello Stato italiano, è la lingua più diffusa, con uno status dominante e viene parlata, accanto ad altre lingue neolatine e/o loro dialetti, dalla gran maggioranza della popolazione.
I dialetti romanzi parlati sono di tipo veneto: il triestino è una parlata che ha sostituito il tergestino, che era un più antico idioma retoromanzo (strettamente imparentato al friulano). Infatti dopo il 1719 – anno in cui Casa d’Austria scelse Trieste per costruire il suo principale porto commerciale – la popolazione triestina passò dai seimila abitanti del 1740 agli oltre duecentomila di metà Ottocento, provocando un cambio linguistico determinato dalla massiccia immigrazione di popolazioni di lingua veneta coloniale provenienti principalmente dalla costa istriana. Costoro emigravano a Trieste attratti da migliori prospettive di lavoro. L’antico dialetto tergestino di tipo retoromanzo continuò ad essere utilizzato ben oltre questa sostituzione, per circa un secolo, solo come lingua nobiliare.
Parimenti anche a Muggia era diffuso un idioma retoromanzo, il muggesano, che sopravvisse lungamente al tergestino, spegnendosi solo con la morte del suo ultimo parlante, Giuseppe de Jurco, nel 1887. Attualmente a Muggia, l’unico comune istriano rimasto all’Italia dopo l’ultima guerra, si parla un dialetto istroveneto profondamente influenzato dal triestino
Il dialetto bisiaco è invece un idioma risultato della progressiva venetizzazione della popolazione originariamente friulanofona e, in minor misura, slovenofona, storicamente appartenente al Friuli. La dominazione veneziana (che aveva in Monfalcone una strategica enclave in questo estremo lembo della pianura friulana) e la vicinanza di Trieste venetizzarono in tal modo la parlata originaria, la cui origine risulta in parte dalla persistenza di un certo numero di elementi lessicali del friulano nonché dello sloveno, anche dall’esistenza di piccole isole linguistiche friulane sparse nel proprio territorio, oggi in fortissimo regresso e sopravviventi solo nell’area prossima all’Isonzo e slovene adiacenti al Carso. Secondo una teoria, confermata da documenti e sostenuta da molti linguisti e storici, l’attuale dialetto bisiaco deve la sua origine ad un ripopolamento in età rinascimentale del territorio oggi chiamato Bisiacaria, e fino ad allora abitato esclusivamente da friulanofoni e, in minor misura, da sloveni. I nuovi arrivati, di parlata veneta e veneto-orientale (un modello veneto diffuso all’epoca in Istria in Dalmazia), non erano in numero sufficiente per dar vita ad una sostituzione linguistica (come invece accadrà a Trieste a partire dal 1800). Per cui si ebbe, sul piano linguistico, una lenta fusione con la precedente realtà friulanofona/slavofona. Da qui la forte presenza del sostrato friulano e sloveno, sia nel lessico che nella morfologia nel bisiaco parlato, fino almeno agli anni trenta e quaranta del Novecento. Oggigiorno il dialetto bisiaco ha perso molte delle proprie connotazioni originarie e risulta essere fortemente triestinizzato, tanto che molti parlanti ritengono che la parlata tradizionale della propria terra sia ormai quasi scomparsa.
Vi è quindi il gradese, una variante veneta arcaica parlata a Grado e nella sua laguna e ritenuta endemica della località, similmente alla parlata (ancor più arcaica) della vicina località lagunare friulana di Marano. Il Gradese e, più in generale, il veneto coloniale, ha avuto come massimo esponente il poeta Biagio Marin.
Lo sloveno, è, nella maggior parte delle zone in cui è diffuso, lingua amministrativa e di cultura insieme all’italiano. Parlate slovene sono utilizzate nell’entroterra carsico italiano e nella stessa città di Trieste. Lo sloveno, nonostante il grande afflusso di esuli istriani nel secondo dopoguerra (particolarmente accentuato nel decennio 1945-1955) in zone etnicamente slovene fin da età medievale, continua ad essere lingua maggioritaria in tre dei 6 comuni che compongono la provincia di Trieste, oltreché nelle frazioni carsiche del capoluogo giuliano (Villa Opicina, Basovizza, ecc.) e nel Carso goriziano.
Inoltre, considerando l’intera provincia di Gorizia (e non solo la Bisiacaria) come facente parte della Venezia Giulia, bisogna aggiungere lo sloveno, parlato nel Collio, sul Carso goriziano e nella città stessa, il Dialetto goriziano nonché la lingua friulana diffusa, da sempre, nella parte settentrionale della provincia e nel capoluogo (nella sua varietà goriziana).
Riguardo alla definizione del termine “giuliano”, è da notare che l’” Associazione giuliani nel mondo” ammette come propri soci “i corregionali di identità e di cultura italiana provenienti dalla Venezia Giulia, dall’Istria, da Fiume, dalle isole del Quarnero e dalla Dalmazia (…) residenti all’estero e nelle altre regioni italiane e loro discendenti”, escludendo di conseguenza i non italiani. La stessa preclusione nazionale è prevista anche dallo statuto dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.


Elenco dei comuni della Venezia Giulia italiana.


Il territorio della Venezia Giulia, durante la sua appartenenza all’Italia tra il 1919 e il 1947 era suddiviso in 128 comuni ripartiti, dal 1927, fra 5 province. Dopo la Seconda guerra mondiale, da cui l’Italia era uscita sconfitta, 98 comuni (fra cui 3 intere province) furono assegnati dall’Accordo di Pace di Parigi – 10.2.1947 – completamente alla Jugoslavia. Nel 1947, con la firma del Trattato di pace, Trieste, assieme ad alcune località situate in una stretta fascia costiera, divenne indipendente sotto il controllo militare alleato con la costituzione del Territorio Libero di Trieste (diviso fra la zona A – Trieste e dintorni – e zona B – Istria nord-occidentale). Come conseguenza, il mandamento di Monfalcone, corrispondente alla Bisiacaria, venne restituito alla provincia di Gorizia cui era stato legato per secoli. Con il Memorandum d’intesa di Londra del 5 ottobre 1954, l’amministrazione civile della zona A del Territorio Libero di Trieste fu assegnata all’Italia, salvo alcune rettifiche territoriali a favore della Jugoslavia che però costrinsero le autorità garanti a tracciare una nuova linea di confine, sostitutiva della precedente demarcazione tra le zone A e B. Successivamente, con il Trattato di Osimo del 1975, tale confine, considerato, anche per motivi di ordine interno, provvisorio dalle due parti per oltre vent’anni (1954-1975), venne reso definitivo dall’Italia e dalla Jugoslavia. (Fonti: Wikipedia)