Il Carso

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Il Carso è un paese di calcari e ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorti, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi. Lunghe ore di calcare e di ginepri. L’erba è setolosa. Bora. Sole
(“Il mio Carso” di S. Slataper)

 


Il Carso (noto anche come altopiano Carsico o Carsia, Iulia Carsa in latino, Kras in sloveno e croato, Cjars in friulano, Karst in tedesco) è una regione storica, un altopiano roccioso calcareo che si estende a cavallo tra Venezia Giulia (provincia di Gorizia e Trieste), Slovenia e Croazia, noto storicamente per essere stato teatro di violente battaglie durante la prima guerra mondiale, tra le truppe italiane e quelle austro-ungariche.
Dal nome della regione geografica del Carso di Trieste, oggetto dei primi studi e presa come riferimento, nota anche come “Carso Classico”, è derivato il termine carsismo. Questo toponimo a sua volta deriva dalla radice “kar” o “karra”, di origine paleoindoeuropea con significato di roccia, pietra. Stessa radice hanno i toponimi Carnia, Carinzia, Carnaro e Carniola.


Il Carso triestino è formato prevalentemente da rocce calcaree, costituite da carbonato di calcio (un composto chimico quasi insolubile), che in acqua acidula si trasforma in bicarbonato (molto solubile). Queste rocce si sono formate per l’accumulo, in milioni di anni, di fanghi e resti calcarei di miliardi di organismi marini dalle dimensioni più varie.
La zona in cui si formerà il Carso, milioni di anni fa era un mare poco profondo, caratterizzata da un clima tropicale molto diverso da quello attuale, abitata prevalentemente da organismi con guscio e scheletro calcareo.

Si estende a sud-est delle Prealpi Giulie, (zona del Collio), giunge fino al mare Adriatico e prosegue poi in Slovenia occidentale e Istria settentrionale, fino al punto di congiunzione con il massiccio delle Alpi Bebie (Velebit) all’estremo nord-ovest della Croazia. L’altopiano si estende su una anticlinale parzialmente erosa.

Secondo la Partizione delle Alpi del 1926 il Carso è considerato facente parte del sistema alpino ed è visto come una delle 26 sezioni delle Alpi, e precisamente la ventiduesima. Secondo questo criterio, si suddivide Piccolo Carso (gruppo 22a) e Carso Istriano (gruppo 22b).
Secondo la SOIUSA il Carso non fa parte delle Alpi, ma appartiene al sistema delle Alpi Dinariche, seguendo la letteratura geografica slovena, che lo suddivide nel seguente modoː Montagne dell’Istria e del Carso (sigla A1); Gruppo della Selva di Tarnova (sigla B1); Gruppo del Monte Nevoso-Risnjak (sigla B2); Largo altopiano della Carniola-interna e della Bassa Carniola (sigla B3).
Secondo altri criteri, può essere suddiviso in Carso Triestino, Carso goriziano, Carso sloveno e Carso istriano (in talune suddivisioni si espande anche più a sud con il Carso dalmata e il Carso bosniaco).

Aree della superficie terrestre ricoperte da formazioni di rocce calcaree.
Le rocce calcaree sono solubili dagli agenti atmosferici, in particolare dall’acido carbonico disciolto nelle acque, e vengono quindi da questi modellate nel tempo in varie forme, causando il fenomeno del carsismo. Nel mondo solo il 15% delle aree con affioramenti carbonatici presentano i caratteristici fenomeni carsici. Uno degli aspetti più rilevanti sono le doline.

Nei secoli scorsi le condizioni di vita furono sempre dure sia per gli inverni rigidi che per le estati estremamente secche che danneggiavano vigne e oliveti. La prolungata siccità verificatasi nel 1782 provocò una vera e propria carestia che ridusse alla miseria più di 1000 famiglie e i cui effetti si prolungarono fino ai primi decenni dell’ Ottocento quando le autorità furono costrette a importare grano dall’Ucraina distribuendolo alle famiglie che avevano perduto tutti i raccolti.
Con la successiva siccità degli anni 1841-42 vi fu un alta mortalità per malnutrizione e malattie e se i paesani di Prosecco, Santa Croce e Opicina si mantenevano con i loro mestieri di scalpellini, muratori e carrettieri quelli di Trebiciano, Padriciano, Gropada e Basovizza con le loro terre pietrose e poco fertili sopravvivevano con i proventi del latte e delle poche verdure che le donne vendevano in città.
Solo il lavoro delle attività industriali di Trieste, l’istituzione della Casa dei poveri e l’affidamento stipendiato delle balie soccorsero i più poveri e chi rimaneva in Carso si arrangiava a frantumare le pietre per venderlo agli appaltatori delle strade. Sul Carso triestino si trovano ancora degli stagni e delle cisterne, che per secoli hanno rappresentato la principale fonte d’acqua per gli abitanti e per gli animali.
A Opicina la più importante riserva d’acqua era rappresentata dalla cisterna di Ovçjak o cisterna romana, che si trova in fondo a una dolina nei pressi della centrale elettrica di Opicina.
Le sue origini sono molto antiche, collegate perfino al primo nucleo abitativo di Opicina, ma la forma attuale risale al 1836, quando venne completamente ricostruita dalla comunità di Opicina, data scolpita sul muretto della scala. Oltre a essere utilizzata come fonte d’acqua per l’abitato, fu anche una “jazera” e infine utilizzata come cisterna d’acqua per rifornire le locomotive a vapore della vicina ferrovia.
La larga carrareccia, che scende a spirale lungo i versanti della dolina, serviva proprio per il transito dei carri che dovevano prelevare l’acqua per le locomotive della vicina stazione ferroviaria.
Ha una forma circolare, una profondità di 3 m e un diametro di 16 (la più grande cisterna del Carso triestino) ed è circondata da un parapetto formato da grossi conci di pietra. Ha rappresentato la principale riserva d’acqua potabile di tutta l’area fino al 1908, quando Opicina fu allacciata all’acquedotto di Aurisina.

Aurisina – Nabrežina
Già nel 1300 il paese carsico era chiamato Lebrosina, Lebresina, negli anni seguono si trovano altre varianti, verso il 1600 Nebresin, Nibresina fino ad arrivare, nel 1800 Nabrežina che tradotto significa sopra il costone, anche  “nabrežje” che significa bacino, limite di un corso d’ acqua.
“Aurisina” (con le varianti Aurisin, Aurisyns, Aurexino e successivamente Aurisino e Auresina) invece era il nome della zona costiera con le sorgenti d’acqua che dal 1853 alimentavano l’acquedotto costruito per i bisogni della Ferrovia Meridionale. Solo nel 1923 il paese carsico è stato ribattezzato “Aurisina”.
Nel 1853 era stato approvato il progetto per la costruzione dell’acquedotto che utilizzava le sorgenti di Aurisina per i bisogni della Ferrovia Meridionale, del porto e della città de Trieste. Oggi le sorgenti di Aurisina sono spesso chiamate “Filtri di Santa Croce”.

Le cave di Aurisina presentano una notevole varietà di materiali che hanno tutti la stessa definzione: “brecciola calcarea” di origine organogena, formatisi nel Cretacico superio¬re. E’ durante questo periodo che iniziò il rapido sviluppo delle Angiosperme. Le ammoniti svilupparono forme a spirale svolta o a guscio quasi completamente diritto (eteromorfe) e nei mari poco profondi si diversificarono le rudiste, un particolare gruppo di lamellibranchi nei quali una valva assumeva forma conica rovesciata, fissata al substrato, mentre l’altra formava una sorta di opercolo.
La fine del Cretacico superiore è caratterizzata da un’importante estinzione di massa, avvenuta 65 milioni di anni fa, famosa perché associata all’estinzione dei dinosauri.
Dal punto di vista chimico, la base di tutti i marmi di Aurisina è il carbonato di calcio, mentre il carbonato di magnesio ed il residuo insolubile, quando ci sono, si trovano soltanto in traccia. Dal punto di vista dell’aspetto, i vari tipi di pietra di Aurisina si distinguono per la pezzatura delle inclusioni di fossili che sono più o meno sminuzzati; solo l’ “Aurisina fiorita” si differenzia dalle altre, per il fatto che i fossili sono di notevoli dimensioni.
Il Carso triestino è formato prevalentemente da rocce calcaree, costituite da carbonato di calcio (un composto chimico quasi insolubile), che in acqua acidula si trasforma in bicarbonato (molto solubile). Queste rocce si sono formate per l’accumulo, in milioni di anni, di fanghi e resti calcarei di miliardi di organismi marini dalle dimensioni più varie.
La zona in cui si formerà il Carso, milioni di anni fa era un mare poco profondo, caratterizzata da un clima tropicale molto diverso da quello attuale, abitata prevalentemente da organismi con guscio e scheletro calcareo.
Già all’epoca romana, dalla fine del I secolo avanti Cristo, le cave di pietra di Aurisina fornivano materiale da costruzione e decoro per Aquileia. Le pietre estratte venivano calate per mezzo di giganteschi scivoli, costituiti da lastre di piombo, lungo il ciglione carsico, e giungevano a destinazione via mare.
Ireneo della Croce scrive: “ […] non lungi dalle cave si vedono ancor oggi i vestigi di due strade, addimandate comunemente “Piombino”, perchè tutta coperte da lastre di piombo grosse, oltre due palmi dalla sommità del monte, sino alla riva del mare, servivano per trasportare le colonne ed altre machine levate dalle suddette cave e caricarle nelle navi”.



Ceroglie (Cerovlje)

Ceroglie (in sloveno Cerovlje, circa 150 abitanti), villaggio che aveva i toponimi Ceroglan (1305), Zirolach (1494), Cerole nel 1600, Ceroula, Ceroule e Cereule nel 1700, poi Zereule: forse il nome si può far risalire al latino arcaico cerrus o quercus cerris, la quercia che un tempo abbondava nella zona.
Centro agricolo posto nel comune di Duino-Aurisina, è abitato da una popolazione prevalentemente di lingua slovena. Posto ai piedi del Monte Ermada (da cui la denominazione “Ceroglie dell’Ermada”) è un tipico centro carsico costituito da un nucleo di costruzioni tipiche, affiancate ad edifici più recenti. Il toponimo deriverebbe dal latino Cerrus (quercia), albero che caratterizza i boschi circostanti.
Viene citato per la prima volta nel 1305 in un contratto di compravendita, ma l’esistenza di un castelliere nelle sue vicinanze fa presumere che l’area fosse abitata anche in epoca preistorica. Viene poi riportato sul libro paga di Duino col nome di Zivolach (cervo) nel 1494. La chiesetta dei santi Cirillo e Metodio venne consacrata nel 1988.
Il paesino venne profondamente danneggiato nel corso della prima guerra mondiale, stante la vicinanza con il fronte del monte Ermada. Già nell’estate del ’14 il Carso triestino ne subì le conseguenze: la popolazione civile dei villaggi della cintura carsica più prossimi al fronte – come Ceroglie e Malchina – dovette abbandonare le proprie case; furono approntate opere di difesa.
Il paese subì la devastazione il 16 agosto 1944 da parte delle truppe tedesche come rappresaglia all’azione dei partigiani della Brigata Trieste, i cui guastatori il 9 agosto fecero saltare il viadotto ferroviario presso Moschenizza. A Ceroglie, che contava circa quaranta case, fu distrutto quasi tutto il paese, tranne tre case.
Ceroglie (di 170 abitanti, 27 deportati e 20 partigiani, di cui 4 caduti).
Castelliere di Ceroglie
Scoperto dalla Commissione Grotte dell’Alpina delle Giulie nel 1964, risulta di piccole dimensioni, con una sola cinta della circonferenza di appena 70 metri, mancante in più punti: potrebbe rientrare nel gruppo dei castellieri che il Marchesetti considera vedette. Esso si trova infatti ubicato poco distante da quelli del Monte Ermada, su di una bassa collina isolata, a quota m. 215, un chilometro a nord-ovest della frazione di Ceroglie.
Gli scavi di assaggio praticati su un modesto ripiano, sul versante ovest, hanno portato al reperimento di pochi frammenti fittili, tra cui un’ansa angolare e l’orlo di un vaso decorato con incisioni triangolari piuttosto irregolari. C’è da tener presente che anche questo castelliere risulta molto rovinato dalle opere belliche.
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Castelliere di Ceroglie, aggiornamenti Stanko Flego – Lidia Rupel (I Castellieri della provincia di Trieste, 1993):
Un castelliere in discreto stato di conservazione si trova a ridosso del confine di stato sul M. Ostri vrh (214,5 m), a nord dell’abitato di Ceroglie. Vi si giunge per la strada che da Ceroglie porta al confine e che in passato collegava il paese con Medeazza. … possiamo visitare le macerie del muro di cinta che si conserva per circa 70 m di lunghezza ed è ancora ben conservato. Esso difendeva un castelliere di piccole dimensioni non riportato dal Marchesetti. Nella parte occidentale del sito si può distinguere un ripiano abitativo, ad est invece le strutture del castelliere risultano danneggiate da opere, eseguite durante la prima guerra mondiale. Dalla cima sono visibili altri tre abitati protostorici e precisamente a sud ovest i Castellieri del M. Ermada Superiore e Inferiore e a sud il Castelliere di Ceroglie (q. 173 m) -Na Vrtaci.
Il Castelliere di Ceroglie fu scoperto nel 1964 da S, Andreolotti). Egli effettuò assieme ad altri soci della Società Alpina delle Giulie un piccolo sondaggio nel lato meridionale del castelliere all’interno delle mura, rinvenendo alcuni frammenti ceramici databili al bronzo finale.


Il Carso è ricco di grotte di varie dimensioni, per cui nel territorio si sono sviluppate molte società speleologiche. Le più famose sono la Grotta dell’Orso, la grotta Gigante, la Grotta delle Torri di Slivia, la Grotta Azzurra, le grotte di San Canziano e le grotte di Postumia.

La grotta dell’Orso (Caverna di Gabrovizza), si trova sul Carso triestino, a circa mezzo chilometro da Gabrovizza, nel comune di Sgonico.

Ampia circa 175 metri e suddivisa in tre tronconi, rispettivamente di 50, 90 e 30 metri, con una larghezza massima di poco superiore ai 20 metri ed una profondità di 39 metri, per la sua conformazione è stata un rifugio ideale sia per animali, sia per gli uomini della preistoria. Nella parte iniziale della caverna sono stati rinvenuti resti di cibo e manufatti di vario genere, risalenti all’uomo neolitico, nella parte finale, interessata peraltro da piccoli crolli, sono emersi resti fossili di più di 23 specie di animali di epoche e climi differenti, tra cui l’Ursus spelaeus, il lupo, la volpe, la iena e il leone.

I primi scavi scientifici vennero eseguiti alla fine del 1800 dal Marchesetti, dal Neumann e dal Weithofer. I reperti si trovano nei musei di Vienna e di Trieste.

Scriveva il Marchesetti nel 1880:
” Dieci anni fa non solo nulla si conosceva ancora intorno all’esistenza dei nostri trogloditi, ma nessuno ancora aveva rivolta l‘attenzione alle mille caverne delle nostre montagne calcari, nessuno aveva pensato di frugare sotto la crosta stalagmitica, che nel corso de’ secoli si era rappresa al fondo degli antri, nessuno si era data la briga di rovistare gli strati poderosi di terriccio che vi si erano accumulati. Qualche esplorazione, perché probabilmente troppo superficiale, non aveva fornito alcun risultato, e da ciò si voleva negare presso di noi resistenza di un popolo di trogloditi, quantunque la regione eminentemente cavernosa vi si prestasse meglio di qualunque altra. Delle nostre caverne e de’ loro abitatori, mi limiterò qui a descrivere quella di Gabrovizza (la prima notizia su questa caverna e sui resti diluviali contenutivi, venne da me pubblicata nel 1885 negli Atti dell’Istituto geologico di Vienna), non lungi da Prosecco, che finora ci fornì maggior copia di oggetti sia dal lato paleontologico che preistorico e che merita perciò ne venga fatta speciale menzione. Fu in un’escursione intrapresa nel Marzo 1884, che, smuovendo un po’ il terriccio, ritrovai verso l’estremità interna della grotta alcuni cocci quasi a fior di terra, i quali mi determinarono a farvi ritorno per praticarvi un qualche assaggio più esteso. Quale non fu però la mia sorpresa, allorché scavati appena pochi centimetri, mi si presentò un bellissimo dente dell’orso delle caverne (Ursus Spelacus) e poco appresso un’intera mascella inferiore dello stesso animale!
L’animale di gran lunga più frequente nella caverna di Gabrovizza era l’orso speleo (Ursus spelaeus) avendovi raccolto ben 10 crani più o meno completi, 50 mascelle inferiori, 310 denti sparsi, oltre ad un’enorme quantità di altre ossa. Essi erano di tutte le dimensioni di tutte l’età, dagl’individui al cui paragone il nostro orso bruno appare un pigmeo, superando per mole l’orso polare, ai giovanissimi, cui stavano appena appena per spuntare i denti. I numerosi oggetti rinvenuti nella grotta giacevano sparsi ne’ vari strati senza alcun ordine, come non altrimenti era da attendersi di cose smarrite o gettate via. In generale più ricchi d’oggetti ed anzitutto di cocci e di resti d’animali erano i luoghi più vicini alle pareti, e specialmente una piccola insenatura, ove la caverna forma gomito, che sembra aver servito da mondezzaio.
Gli oggetti più interessanti sono senza dubbio i manufatti litici di cui questa caverna, a differenza della maggior parte delle altre del Carso, finora esplorate, si mostrò molto ricca. D’istrumenti in pietra si raccolsero ne’ nostri scavi: Coltelli, seghe, lesine, raschiatoi . . 124; Cuspidi 7; Schegge 24; Nuclei 5; Asce 2; Pestello di quarzite 1; Cote e lisciatoi d’arenaria …. 42.
In un’ epoca in cui mancava del tutto la conoscenza dei metalli e l‘uomo era costretto a plasmare in argilla gli utensili d’uso domestico, non è da stupirsi dell’enorme quantità di stoviglie rispettivamente dei cocci che ne risultarono, onde riboccano le nostre caverne ed i nostri castellieri. E sono appunto i cocci spesse volte gli unici avanzi che ci rivelano l’esistenza dell’uomo preistorico su qualche vetta denudata dei nostri monti od in qualche antro umido e di difficile accesso. Né la caverna di Gabrovizza vi fa eccezione: che abitata per lunghissimo tempo, vi si accumulò un’ingente quantità di cocci, che se anche non ci permettono che una parziale ricostruzione delle vecchie pentole, ci offrono tuttavia un materiale molto importante per giudicare dello sviluppo e della perfezione, cui giunse la ceramica durante il periodo neolitico. La decorazione più comune ed in pari tempo più semplice, consiste in un intreccio di linee senza alcun ordine, quasiché il figulo fosse passato con un mazzo di vimini sulla pasta ancor molle. Gli animali di cui più frequentemente si pascevano gli abitanti di questa caverna erano la capra e la pecora. Oltre a queste due specie trovansi rappresentati il capriolo ed il cighiale, il primo da molte corna e da qualche mascella ed il secondo da alcune zanne veramente colossali, che fanno presupporre animali di dimensioni considerevoli. Si rinvennero pure resti di lepre e di volpe, di quest’ultima una testa perfettamente intatta. Appresso alle ossa di vertebrati, rinvengonsi in gran copia molluschi marini, disseminati in tutti gli strati di cenere. Numerosissime sono specialmente le così dette naridole (Monodonta turbinata Born, meno frequente la Monodonta articulata Lam) delle quali contai più di mille esemplari. Quasi altrettanto copiose sono le pantalone (900 esemplari) appartenenti alle specie Patella scutellaris Blain. P. aspera Lam. e P. suhplana Pot. e Mich., più raramente alla P. tarentina Sal. Del pari frequenti (750 esemplari) sono le ostriche (Ostrea plicatida L., meno comune l‘O. Cyrnusi Payr., le valve delle quali trovaronsi di preferenza in uno strato intermedio ed in prossimità della parete della caverna, divenendo molto più rare verso il centro. Molte valve però portano tracce di lavorazione, avendo i margini arrotondati e la superficie esterna lisciata, sicché con molta probabilità avranno servito da cucchiai, o fors’anche quali istrumenti da taglio o per lo meno raschianti, come avviene ancor al presente presso molti popoli selvaggi. A quest’ultimo scopo veniva adoperata evidentemente la valva di un mitilo, che ha il margine affilato. Devo inoltre notare che queste specie non trovansi sparse equabilmente nella grotta, predominando in un luogo l’una, altrove l‘altra con esclusione quasi assoluta delle specie diverse. Gli altri molluschi non apparvero che in piccolo numero, cosi si ebbero 24 cozze (Mytilus galloprorincialis Lam.), 8 canestrelli (Peeten glaber L.), 12 campanari (Cerithium vulgatum Brug) e 3 piè d’asino (Pectunculus insubricus Broc). Per quanta attenzione vi facessi, non potei trovare alcun resto di pesci o di crostacei, come pure d’echinodermi, di cefalopodi, ecc. Del pari vi faceva difetto qualsiasi avanzo vegetale. Che la grotta abbia servito per lunghi secoli da dimora agli animali ed all’ uomo, chiaro emerge dallo spessore degli strati di cenere e dalla quantità delle ossa e degli oggetti rinvenutivi….”

La Grotta Gigante, costituita da rocce carbonatiche prevalentemente calcaree e in minor misura dolomitiche, venne esplorata per la prima volta, e soltanto parzialmente, nel 1840 dall’ingegnere Anton Friedrich Lindner al fine di trovare nuove risorse idriche per la città. Appena nel 1890 una nuova spedizione portò alla scoperta di due nuovi ingressi, uno dei quali si prestava alla costruzione di scalinate per le visite turistiche; fu così che tra il 1905 ed il 1908 si costruì il primo percorso, ancora oggi in parte utilizzato – venne aperta ufficialmente al turismo dal Club Touristi Triestini nel 1908. Fino al 1957 per l’illuminazione si utilizzavano lampade ad acetilene, sostituite poi dall’impianto elettrico. La sua principale caratteristica è quella di essere la grotta turistica con la sala naturale più grande al mondo: alta circa 100 metri, lunga 280 metri e larga 76 metri.
Nel corso di scavi archeologici, nella Grotta Gigante sono stati rinvenuti numerosi reperti risalenti a varie epoche: punte di freccia e raschietti in selce, resti umani datati al tardo Neolitico; reperti dell’Età del bronzo (un pugnale e vasellame); tre monete di epoca romana del primo secolo d.C. e vasellame medievale.
L’origine della grotta viene fatta risalire tra i 100 e i 20 milioni di anni fa (tra il Cretacico inferiore e l’Eocene superiore), per il lento accumulo di sedimenti carbonatici sui fondali di antichi mari caldi. Questi sedimenti erano rappresentati soprattutto da parti dure (conchiglie) di organismi morti, tra i quali microscopici coralli, crostacei e molluschi misti a fanghi carbonatici. I naturali processi di diagenesi hanno in seguito trasformato tali sedimenti sciolti in strati di roccia compatta.
Questi strati dei sedimenti rocciosi, generatisi sotto i fondali marini, sono emersi circa 20-30 milioni di anni fa a causa dei lenti movimenti della crosta terrestre. La Grotta Gigante contiene abbondanti fossili di rudiste, molluschi lamellibranchi estinti 65 milioni di anni fa nel corso della grande estinzione che portò anche alla scomparsa dei dinosauri. Una volta emerse dal mare, le rocce calcaree del Carso rimasero esposte all’azione delle acque piovane e dei fiumi, che cominciarono a scavare progressivamente, per dissoluzione ed erosione, ampie gallerie sotterranee, processo rinforzato dalle acque che deviarono il loro corso nel sottosuolo. Veri e propri fiumi sotterranei continuarono in seguito ad allargare le vecchie gallerie e a crearne di nuove, ancora più profonde, mentre quelle superiori venivano gradualmente abbandonate dai corsi d’acqua. Queste cavità cominciarono a subire lenti processi di riempimento di sostanze trasportate dall’acqua di gocciolamento proveniente dagli strati di roccia superiori. L’apporto di calcare costituisce la base per la formazione di concrezioni come stalattiti, stalagmiti e colate calcitiche, mentre altri minerali contribuiscono a dare a tali concrezioni differenti colorazioni. I corsi d’acqua hanno abbandonato la cavità ormai da moltissimo tempo, in un’epoca risalente ad almeno cinque milioni di anni fa. La morfologia attuale è frutto di profonde modifiche strutturali: la spettacolare Grande Caverna deve infatti la sua origine e la sua ampiezza al crollo di un diaframma di roccia che inizialmente separava due distinte gallerie sovrapposte. Tale colossale frana, databile a circa 500.000 anni fa, ha causato l’occlusione del proseguimento della grande galleria inferiore ma ha permesso la fusione di ciò che resta di questa con la più piccola galleria superiore, creando il vastissimo ambiente oggi visitabile. Un altro antico crollo ha permesso l’unione della Grotta Gigante con un profondo pozzo verticale attiguo, generato dall’acqua piovana in epoca più recente rispetto all’origine del resto della grotta. Da quando la cavità è stata abbandonata dai corsi d’acqua, al suo interno è cominciata anche la crescita di concrezioni calcitiche. Numerosissime infatti sono le stalattiti e stalagmiti che impreziosiscono la grotta. Tra le stalagmiti, che crescono attualmente ad una velocità media di 1mm ogni 15-20 anni, spicca l’imponente “Colonna Ruggero”, alta 12 metri e formatasi in circa 200.000 anni. Molte di queste concrezioni presentano una colorazione rossastra, dovuta alla presenza di ossidi di ferro.
La gestione turistica della Grotta Gigante è affidata alla Commissione Grotte “E. Boegan”, il gruppo speleologico della Società Alpina delle Giulie (la Sezione di Trieste del Club Alpino Italiano).Visitabile tutto l’anno, oltre alle attività turistiche (90.000 visitatori all’anno) e didattiche, vi si svolgono attività di ricerca scientifica.
Nel 1997 fu costruito il nuovo percorso di risalita, dedicato a Carlo Finocchiaro, a lungo presidente della Commissione Grotte E. Boegan e figura di spicco nel mondo della speleologia internazionale. Nel 2007 si concluse l’esplorazione dell’ultimo ramo laterale della Grotta Gigante, oggi dedicato allo speleologo Giorgio Coloni, che consente di raggiungere con l’ausilio di una vera e propria via ferrata la profondità di 250 metri, termina quindi a solo 20 metri sul livello del mare. Nel 2005 è stato inaugurato il nuovo “Centro accoglienza visitatori”, che ospita anche il Museo scientifico speleologico, mentre nel 2009 è stato rinnovato integralmente l’impianto d’illuminazione della grotta.




 (Fonti: Trieste di ieri e di oggi; Trieste e la sua Storia; Wikipedia e altre)

Venezia Giulia di ieri e di oggi

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La Venezia Giulia (in tedesco Julisch Venetien; in sloveno e croato Julijska Krajina; in veneto Venesia Juia; in friulano Vignesie Julie) è una regione storico-geografica concettualmente definita nell’Ottocento al pari delle Tre Venezie; attualmente politicamente e amministrativamente è divisa tra Italia, Slovenia e Croazia, con la parte rimasta all’Italia dopo la seconda guerra mondiale in seguito ai trattati di pace di Parigi del 1947 e del Memorandum di Londra del 1954, che costituisce, insieme al Friuli, la regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia.
Il nome è stato ideato nel 1863 dal linguista goriziano Graziadio Isaia Ascoli per contrapporlo al nome Litorale, creato dalle autorità austriache nel 1849 per identificare una regione amministrativa più o meno coincidente. Il patrionimico dell’area è giuliano (plurale giuliani).

I territori che hanno fatto parte della Venezia Giulia (Gorizia con gli altopiani carsici tra il Vipacco e l’Idria – e a nord dell’Idria, tra l’Isonzo e Alpi Giulie, con l’estremità orientale della Carnia friulana -, Trieste e il suo entroterra carsico delle Alpi Dinariche, fino al Vipacco e al Timavo, Pola con la penisola istriana, Fiume con le isole del Quarnaro e in primis Cherso, Lussino e altre isole minori, nonché Veglia, pur esclusa dall’annessione al Regno d’Italia a seguito della Prima Guerra Mondiale), iniziarono ad essere indicati con tale denominazione nel 1918. Furono sede, in età protostorica, della cultura dei castellieri e subirono successivamente un intenso processo di romanizzazione.
In età medievale non ebbero una storia comune almeno a partire dal X secolo, dal momento che l’Istria costiera si legò a Venezia da stretti vincoli politici e culturali, mentre l’Istria interna iniziò a ruotare sempre più entro l’orbita Sacro Romano Impero e asburgica. Anche Gorizia e il Friuli orientale, per lungo tempo governate da una famiglia comitale, vassalla prima dello Stato patriarcale di Aquileia e poi di Venezia, caddero, alle soglie dell’età moderna, sotto il potere della casa d’Austria. Caso a sé stante è rappresentato da Trieste che prima di associarsi all’Austria (1382) fu città vescovile e poi libero comune. La Venezia Giulia, unita all’Italia nel 1918, fu in massima parte annessa, al termine della seconda guerra mondiale, alla Jugoslavia (per la precisione vennero ceduti 7.625 km² di territorio).

Antichità preromana e romana

L’attuale regione giuliana fu abitata fin da epoca preistorica. A Visogliano, nel Carso triestino e a Pocala (Aurisina) sono venuti alla luce resti che documentano attività litiche durante il Paleolitico inferiore e medio. La prima cultura stanziale autoctona fu tuttavia quella dei castellieri, che iniziò a svilupparsi durante l’età del bronzo tardio, per protrarsi fino alla conquista romana (II secolo a.C.), coprendo un arco di oltre un millennio. Non conosciamo le origini del popolo o dei popoli di agricoltori e pastori che inizialmente elaborarono tale cultura che, nata in Istria, si estese, col tempo, fino alla Dalmazia e al Friuli.
Di certo agli albori dell’età del ferro (X – IX secolo a.C. circa) etnie indoeuropee di stirpe venetica o illirica (Istri, Liburni e Giapidi) dedite, oltre che alle attività primarie, anche alla navigazione e alla pirateria, imposero il proprio dominio sul territorio, sostituendosi o mescolandosi alle genti autoctone. Tali etnie, a contatto con le colonie greche dell’Adriatico e con l’evoluto popolo venetico (o paleoveneto), crearono, a partire dal V secolo a.C., anche degli insediamenti con caratteristiche propriamente urbane. Fra questi, assunse particolare importanza la città di Nesactium, capitale della federazione degli Istri situata nei pressi dell’attuale Pola (a propria volta castelliere fra i più importanti dell’Istria). In epoca successiva sopravvennero anche i Carni, di stirpe celtica, che dalla Carnia discesero nel Carso, occupandolo fino al Vipacco e al Timavo nel 186 a.C.

L’incorporazione del territorio allo Stato romano avvenne nei cinque o sei decenni che seguirono la fondazione della colonia di diritto latino di Aquileia (181 a.C.), che, alle soglie dell’età imperiale, era già divenuta la quarta città più popolosa d’Italia, capitale della Venetia et Histria, e massimo centro di irradiazione della romanità non solo nelle future regioni giuliana, friulana e veneta, ma anche nel Norico mediterraneo e in Dalmazia. Nel 42 a.C. il confine dell’Italia romana fu stabilito al fiume Tizio (poi conosciuto come Cherca) includendo l’intera costa liburnica e l’estremità settentrionale della Dalmazia con Iadera (attuale Zara), ma nel 16 a.C., per ragioni militari, Ottaviano ne dispose l’arretramento all’Arsa, escludendo la Liburnia.
Se Aquileia fu indiscutibilmente la realtà urbana più importante e prestigiosa dell’Italia nord-orientale, non fu l’unica: fin da epoca augustea era andato sviluppandosi in zona un certo numero di nuclei urbani, alcuni dei quali di dimensioni ragguardevoli, come Tergeste, Pietas Julia e Tarsatica, sviluppatasi da un precedente importante castelliere liburnico sul fiume Eneo; anch’esse nacquero come colonie di diritto latino e servirono come poli di romanizzazione delle aree circostanti; Castrum Silicanum (Salcano) e Pons Aesontii (Mainizza) furono edificati nell’area dell’attuale Gorizia. Tutto lascia supporre che, nei primi secoli dell’era cristiana, le popolazioni stanziate nella futura regione giuliana (in parte di origine latina), erano permeate di romanità, la quale « […] per la profondità delle sue radici, per la durata nel tempo, non è punto diversa…rispetto alla romanità delle altre terre dell’Italia settentrionale, dal finitimo Veneto all’opposto Piemonte ».

Dopo la distruzione di Aquileia ad opera degli unni di Attila (452), il territorio perdette il suo centro organizzatore, divenendo baluardo estremo di latinità a ridosso di province ex-romane sempre più germanizzate. Nel 493 fu incorporato al regno ostrogoto da Teodorico. Al dissolvimento dello Stato ostrogoto, la massima parte della regione entrò nella sfera bizantina (territori a sud dell’Isonzo), salvaguardando o persino rafforzando la propria romanità nei due secoli e mezzo successivi di ininterrotta dominazione romano-orientale (539-787), mentre l’esigua parte restante fu occupata dai Longobardi allorquando questi invasero l’Italia (568). Il popolo franco, negli ultimi decenni dell’VIII secolo, si sostituì sia ai longobardi che ai bizantini, imponendo il proprio dominio sull’intero territorio, che inserì stabilmente nel Regnum Italicorum. In età ottoniana (X secolo) Trieste iniziò ad essere governata come entità autonoma dai suoi vescovi, per convertirsi in libero comune (XIII secolo), mentre i centri abitati della costa occidentale dell’Istria si orientavano sempre più verso Venezia, non soggetta all’autorità del sacro romano impero e in piena espansione demografica ed economica ancor prima dell’anno 1000. Il resto del territorio giuliano (Friuli orientale, Istria interna, ecc.) restò invece vincolato, in maggiore o minor misura, al Sacro Romano Impero, anche quando i Patriarchi di Aquileia, sul finire dell’XI secolo ottennero dall’imperatore Enrico IV l’investitura della Contea d’Istria, del Ducato del Friuli (1077) e il titolo di Principi (da qui il nome di Principato ecclesiastico di Aquileia).
Come loro “avvocati” (cioè vassalli), detennero il potere nel Friuli orientale (oltreché in Tirolo e in altre zone d’Italia e Austria) i Lurngau, conti di Gorizia, centro abitato nato agli albori del secondo millennio a ridosso di una regione abitata prevalentemente da genti slave. Queste ultime, presenti in zona fin da epoca bizantina e longobarda, si diffusero, nei secoli successivi, in quasi tutti i territori che poi avrebbero conformato la Venezia Giulia: Croati a sud, nell’Istria interna e orientale, oltre che nell’entroterra fiumano e nel Quarnero; Sloveni nell’estremo lembo settentrionale dell’Istria, nel Carso triestino e nel Friuli orientale. Fu, quella slava, un’immigrazione di carattere rurale che coinvolse solo marginalmente i centri abitati maggiori, popolati in massima parte da gruppi etnici autoctoni di origine italica o comunque romanica (veneti, friulani, dalmati, ecc.).

Il passaggio della contea di Pisino agli Asburgo (1374), la libera associazione di Trieste alla casa d’Austria, (1382), l’incorporazione di Fiume agli Stati asburgici (1471), la cessione della Contea di Gorizia all’imperatore Massimiliano (1500), unitamente al dominio diretto di Venezia sulle isole del Quarnero e su tanta parte dell’Istria (affermatosi progressivamente fra il XII e il XV secolo), oltreché su alcune zone del Friuli orientale, fra cui Monfalcone (XV secolo), vennero sempre più a conformare due blocchi all’interno del futuro territorio giuliano: uno asburgico e l’altro, di dimensioni più contenute, veneto.
Tale suddivisione si protrasse fino agli ultimi anni del Settecento, allorquando, con il trattato di Campoformido (1797), anche le città e i territori veneti passarono all’Austria. Quest’ultima, circa vent’anni prima aveva ceduto Fiume all’Ungheria (1776-1779). In età napoleonica il nuovo ordine territoriale della regione fu temporaneamente sovvertito, ma nel 1814-1815 l’Austria rientrò in possesso di tutti i territori che avrebbero successivamente fatto parte della Venezia Giulia.
In tale ampio arco di tempo la composizione etnica e linguistica della popolazione che abitava la regione non subì trasformazioni sostanziali, con l’elemento italiano predominante in tutte le realtà urbane di una certa entità (Gorizia, Gradisca, Trieste, Capodistria, Pola, Fiume, ecc.) e quello slavo, maggioritario invece nei piccoli centri agricoli e nelle campagne, rafforzatosi ulteriormente in alcune zone, e in particolare nella penisola istriana, durante i primi due secoli dell’età moderna (sia per effetto dell’avanzata turca che a causa dei vuoti lasciati da alcune catastrofiche pestilenze. L’immigrazione di croati e sloveni, unitamente a quella di albanesi e di valacchi, fu all’epoca incoraggiata dalle autorità locali). Per quanto riguarda la componente germanica, impiegata soprattutto nella pubblica amministrazione e nell’esercito, subì un certo incremento nelle città in età teresiana e giuseppina, dovuto al processo di modernizzazione e burocratizzazione dello Stato austriaco, senza però riuscire mai costituire gruppi minoritari di una certa consistenza, soprattutto a Trieste.
Una regione contesa. La questione relativa al nome delle terre ai confini fra il Regno d’Italia e l’Impero austriaco fu indicativa d’una situazione nella quale si venivano radicalizzando le varie pulsioni nazionali.
Nei primi sessant’anni del XIX secolo l’Impero Austriaco conobbe una serie di modificazioni territoriali, che si accompagnarono a varie modifiche di carattere costituzionale e amministrativo. All’interno delle terre definite successivamente da Graziadio Isaia Ascoli come Venezia Giulia, nel 1816 sul modello delle Province illiriche napoleoniche si decise la costituzione del Regno di Illiria (Königreich Illyrien), diviso in due governatorati con Lubiana e Trieste come capoluoghi. La Contea di Gorizia e Gradisca (Gefürstete Grafschaft Görz und Gradiska), le due Istrie (quella già veneziana e quella già asburgica) e le tre isole del Quarnaro – Veglia, Cherso e Lussino – fino a quel momento parti della Dalmazia storica, rientravano sotto la giurisdizione di Trieste. Nel 1825 i due circoli istriani vennero uniti in uno solo, con capoluogo Pisino. A quella data Gorizia, con l’Istria e Trieste, costituiva il Litorale (Küstenland) del Regno d’Illiria, che era completato a nord dai Ducati di Carinzia e di Carniola (Herzogthümer Kärnthen und Krain).
I rivolgimenti nazionali interni all’Impero si ripercossero anche in queste regioni: nel 1848 ad un risveglio nazionale di carattere italiano in Istria fece riscontro un contemporaneo risveglio nazionale sloveno, prevalentemente nei territori dei Ducati di Carinzia e di Carniola. Gli sloveni, popolazione maggioritaria del regno d’Illiria, proposero di includere all’interno dei confini del suddetto regno anche ampie parti della Stiria, in modo da unire tutte le terre considerate slovene in un’unica unità amministrativa. Il geografo sloveno Peter Kozler disegnò una mappa (“Mappa delle terre e regioni slovene” – Zemljovid Slovenske dežele in pokrajin), in base alla quale si sarebbero dovuti ridefinire i confini illirici in modo che potesse nascere un grande stato di nazionalità slovena. Egli inserì fra le terre slovene anche parti del Friuli orientale e l’intera costa adriatica fino a Monfalcone, prevedendo l’inserimento all’interno dei confini anche della zona di Grado. La mappa è tuttora considerata fra i massimi simboli del nazionalismo sloveno.
Nella nuova costituzione austriaca del 4 marzo 1849 queste terre vennero nuovamente chiamate Regno di Illiria (Königreich Illyrien, o anche Illirien), ma nel corso dello stesso anno – nell’ambito della fase neoassolutistica dell’Impero, che portò all’annullamento prima di fatto e poi di diritto della costituzione – il Regno d’Illiria venne abolito e sostituito da un sistema più articolato: vennero riformate le Province della Corona, le quali a loro volta furono inserite – per quanto riguarda quella che successivamente fu la parte austriaca dell’Impero – in quattordici Regni (Königreiche) e Regioni (Länder). Si creò così il Litorale Austro-Illirico (Österreichisch-Illyrische Küstenland), come mera suddivisione amministrativa, non dotata però di proprie istituzioni rappresentative se si esclude la presenza a Trieste – considerato capoluogo della regione – di un luogotenente imperiale con competenza sull’intero territorio: a partire dal 1861 – invece – le tre terre costituenti il Litorale ebbero ognuna un proprio parlamento locale (Dieta), nominato in base a regolari elezioni.
Tralasciando la limitata presenza tedesca nell’area, in senso generale si può affermare che nelle zone identificate da Ascoli come Venezia Giulia si svilupparono due diverse dimensioni nazionali: quella italiana e quella slava (slovena e croata), che nel tempo scatenarono un antagonismo a tutto campo, che comprese anche la definizione del nome geografico di queste terre di confine. Ciò si riflette anche sull’attuale nome ufficiale dei territori sloveni già facenti parte della Venezia Giulia italiana, chiamati Primorska (Litorale) e riprendendo quindi la definizione austriaca, nata nella prima metà del XIX secolo. Per motivi meramente statistici (senza quindi alcun valore amministrativo né geografico), questa parte della Slovenia oggi è divisa nelle due regioni statistiche del Goriziano sloveno (Goriška) e Carsico-litoranea (Obalno-kraška). Il nome storico di “Istria” in Slovenia ha quindi oggi solo una valenza storico-geografica.
Come conseguenza della terza guerra d’indipendenza italiana, che portò all’annessione del Veneto al Regno d’Italia, l’amministrazione imperiale austriaca, per tutta la seconda metà del XIX secolo, aumentò le ingerenze sulla gestione politica del territorio per attenuare l’influenza del gruppo etnico italiano temendone le correnti irredentiste. Durante la riunione del consiglio dei ministri del 12 novembre 1866 l’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria tracciò un progetto di ampio respiro mirante alla germanizzazione o slavizzazione dell’aree dell’impero con presenza italiana:
«Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno. Sua maestà richiama gli uffici centrali al forte dovere di procedere in questo modo a quanto stabilito.»
(Francesco Giuseppe I d’Austria, consiglio della Corona del 12 novembre 1866.)
Queste ingerenze, insieme ad altre azioni di favoreggiamento al gruppo etnico slavo ritenuto dall’impero più fedele alla corona, esasperarono la situazione andando ad alimentare le correnti più estremiste e rivoluzionarie.
 

La prima definizione della Venezia Giulia

Il Litorale Austriaco (1897)
Fu quindi in tale complesso contesto storico e nazionale che il glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli propose nel 1863 di adottare – in alternativa a Litorale Austriaco – la denominazione di Venezia Giulia. La proposta non aveva finalità irredentiste: Ascoli aveva piuttosto l’intenzione di marcare l’italianità culturale della regione. Il nome derivava dalla Regio X, una delle regiones in cui Augusto divise l’Italia intorno al 7 d.C., successivamente indicata dagli storici come Venetia et Histria. Il suo territorio corrispondeva alle antiche regioni geografiche della Venezia e dell’Istria. L’Ascoli divise il territorio della Regio X in tre parti (le cosiddette Tre Venezie): la Venezia Giulia (Friuli orientale, Trieste, Istria, parti della Carniola e della Iapidia), la Venezia Tridentina (il Trentino e l’Alto Adige) e la Venezia Propria (Veneto e Friuli centro-occidentale). È da tener presente che nel momento in cui l’Ascoli suggeriva il nome Venezia Giulia tutte queste regioni facevano parte dell’impero d’Austria. La stessa Venetia et Histria era inoltre più vasta del territorio che l’Ascoli definiva con il termine di Venezie, comprendendo anche le attuali province lombarde di Brescia, Cremona e Mantova.
Ecco come l’Ascoli ripartì il territorio, identificando di conseguenza la Venezia Giulia:
«Noi diremo “Venezia propria” il territorio rinchiuso negli attuali confini amministrativi delle province venete; diremo “Venezia Tridentina” o “Retica” (meglio “Tridentina”) quello che pende dalle Alpi Tridentine e può avere per capitale Trento; e “Venezia Giulia” ci sarà la provincia che tra la Venezia Propria e le Alpi Giulie e il mare rinserra Gorizia, Trieste e l’Istria. Nella denominazione comprensiva “Le Venezie” avremo poi un appellativo che per ambiguità preziosa dice classicamente la sola Venezia Propria, e perciò potrebbe stare sin d’ora, cautamente ardito, sul labbro e nelle note dei nostri diplomatici. Noi ci stimiamo sicuri del buon effetto di tale battesimo sulle popolazioni a cui intendiamo amministrarlo; le quali ne sentono tutta la verità. Trieste, Roveredo, Trento, Monfalcone, Pola, Capodistria, hanno la favella di Vicenza, di Verona, di Treviso; Gorizia, Gradisca, Cormons, quella d’Udine e di Palmanova. Noi abbiamo in ispecie ottime ragioni d’andar sicuri che la splendida e ospitalissima Trieste s’intitolerà con gaudio orgoglio la Capitale della Venezia Giulia. E non ci resta che di raccomandare questo nostro battesimo al giornalismo nazionale; bramosi che presto sorga il dì in cui raccomandarlo ai Ministri e al Parlamento d’Italia e al valorosissimo suo Re.»
(Graziadio Isaia Ascoli, “Le Venezie”, 1863)
Gli irredentisti italiani non furono mai concordi sui territori che avrebbero dovuto essere oggetto delle rivendicazioni nazionali sul confine orientale. Per molti aderenti o futuri aderenti al movimento irredentista, e anche per alcune personalità politiche non ascrivibili a tale movimento (fra cui Giuseppe Mazzini e il liberale di idee moderate Ruggiero Bonghi), il Litorale Austriaco avrebbe dovuto entrare a far parte, interamente o nella sua quasi totalità, del giovane Regno d’Italia. Altri ritenevano invece che anche la Dalmazia costiera facesse parte delle “terre irredente”. Le rivendicazioni più estreme di questi ultimi presero piede soprattutto a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo, ma furono politicamente fatte proprie dal Regno d’Italia solo negli anni che precedettero la Grande Guerra.

La denominazione ascoliana non si impose tuttavia con immediatezza, anche se alcuni irredentisti iniziarono ad utilizzarla in conferenze e testi fin dagli anni ottanta dell’Ottocento. Tali territori furono infatti definiti, oltre che Venezia Giulia, in molte maniere: Litorale Veneto orientale, Litorale triestino, Litorale Veneto Istriano, Istria e Trieste, Litorale delle Alpi Giulie, Frontiera orientale e Regione Giulia.
Ai primi del Novecento la contrapposizione ideologica tra irredentisti italiani e lealisti asburgici (in massima parte appartenenti al gruppo etnico tedesco e a quelli sloveno e croato) iniziò ad esprimersi anche sotto un profilo terminologico: i secondi preferivano continuare ad usare la denominazione Litorale Austriaco, mentre i primi rivendicavano la legittimità della definizione di Venezia Giulia. Esemplare in questo senso è la diatriba tra il conte Attems – rappresentante del governo austriaco a Gorizia – e l’irredentista Gaetano Pietra. Il primo nel 1907 negava decisamente l’esistenza di una Regione Giulia:
«Finalmente non posso fare a meno di contestare la legalità della denominazione di Regione Giulia ai nostri paesi, denominazione inammissibile poiché la Contea Principesca di Gorizia-Gradisca con il Margraviato d’Istria e con la città immediata di Trieste costituiscono il Litorale ma non la Regione Giulia.»
Pietra si era opposto dicendo che:
«A noi suona meglio il nome di Venezia Giulia perché ha in sé tutta l’armonia delle memorie! e noi, lo diciamo anche altrove, sentiamo tutta la tenerezza delle memorie patrie! D’altronde abbiamo anche un convincimento: L’aquila ha battuto alte le penne dalle nostre alpi al mare nostro, e tutta ancora la terra risuona della voce della grande madre latina — l’artiglio del leone ha stampato la sua impronta sul petto degli abitanti e l’anima della Dogale palpita nel cuore dei popoli! Ora di tali fatti compiuti, pur sopprimendo anche nel nome gli ultimi esteriori vestigi rimangono le profonde indelebili impressioni nelle coscienze! E noi siamo sicuri della coscienza nazionale di nostra gente per preoccuparci, come ha mostrato d’altro canto il rappresentante del governo, perché il nostro paese venga indicato, da chi proprio lo desidera, con un nome, secondo noi, meno eufonico di Venezia Giulia e sia pure non di nostra favella!»
Solo agli inizi del Novecento si venne sempre più imponendo la denominazione di Venezia Giulia. In Friuli, la denominazione di Venezia Giulia non veniva avvertita negativamente, tant’è vero che la rivista udinese Pagine Friulane recensì in termini molto positivi la ristampa dell’opera del liberale Bonghi intitolata proprio Venezia Giulia. Se è vero che gran parte della classe dirigente friulana di allora non si oppose al nome Venezia Giulia, è però da ricordare che alcuni intellettuali friulani fin da quegli anni rivendicavano un’autonomia all’interno dello Stato italiano (o anche al di fuori di esso). Com’è noto, durante il ventennio fascista gli avvenimenti presero una piega che rese irrealizzabili non solo tali aspirazioni, ma anche lo sviluppo della vita democratica e delle libertà civili e politiche in tutta l’Italia.
Al termine della prima guerra mondiale, considerata da taluni l’ultimo atto del risorgimento nazionale la denominazione di Venezia Giulia venne ad essere adottata in forma semiufficiale per designare tutti i territori ad est del Veneto precedentemente posti sotto sovranità austriaca e annessi dall’Italia. Questi comprendevano, oltre a tutto l’ex Litorale Austriaco (tranne il comune istriano di Castua e l’isola di Veglia, andati al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), alcune zone della Carniola (i distretti di Idria, Postumia, Villa del Nevoso e alcuni villaggi del Tarvisiano) e della Carinzia (la maggior parte della Val Canale), nonché in certi contesti la città dalmata di Zara. Il Tarvisiano e ad alcuni comuni della bassa friulana ex-austriaca (Cervignano, Aquileia, ecc.), furono però incorporati nella prima metà degli anni venti nella Provincia di Udine (anche se solo a partire dal 1925 iniziarono ad apparire in tutte le mappe ufficiali o semiufficiali e nelle rilevazioni statistiche come facenti parte di tale provincia), e vennero in tal modo a perdere, anche nell’immaginario collettivo, le proprie connotazioni giuliane, mentre Fiume, annessa al Regno d’Italia nel 1924 passò a formar parte a pieno titolo della Venezia Giulia. Il 5 giugno del 1921 il Regno d’Italia emetteva una serie di francobollo detta appunto Annessione della Venezia Giulia per commemorare tale avvenimento.
Anche durante il fascismo la denominazione di Venezia Giulia venne utilizzata inizialmente per designare l’insieme dei territori annessi all’Italia dopo la Prima guerra mondiale lungo il confine con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (successivamente divenuto Regno di Jugoslavia): una buona esemplificazione di questo concetto di Venezia Giulia è data dalle mappe pubblicate postume da Marinelli nel 1920 integrando manoscritti di Cesare Battisti. Tale territorio è la sommatoria di parti di diverse zone geografiche (Trieste, Istria, Friuli orientale, Carniola, Carinzia meridionale, ecc).
Nel corso dell’VIII Congresso Geografico Italiano (marzo-aprile 1921), venne votato all’unanimità un ordine del giorno – presentato dal geografo friulano Olinto Marinelli – col quale si chiedeva che il nome di Venezia Giulia (o altro equivalente) avesse “d’ora innanzi a comprendere, oltre ai territori redenti, anche l’intero territorio friulano”. Il nome proposto dal congresso fu “Regione Giulia”, ritenendo quindi superata la denominazione ascoliana. A partire da questa determinazione, il nome Venezia Giulia andò quindi a identificare, per alcuni geografi, le province del Friuli (Udine), Gorizia, Trieste, Istria (Pola) e la Liburnia (Carnaro). Lo stesso avvenne anche nelle edizioni del Touring Club Italiano: si veda in tale proposito la mappa della Venezia Giulia – comprendente il Friuli – pubblicata dal TCI nel 1928. La Treccani, massima espressione della cultura italiana del tempo, non recepì tuttavia gli orientamenti della Reale Società Geografica Italiana e continuò ad inserire la Provincia del Friuli nel Veneto (Venezia Euganea). Allo stesso modo, anche l’Istituto Centrale di Statistica, nei suoi rilevamenti, considerò tale provincia, agli effetti statistici, come facente parte della Venezia Euganea.

Mappa delle Tre Venezie
Il termine Venezia Giulia come unità amministrativa provinciale fu adottato ufficialmente solo per un breve periodo (fra l’ottobre 1922 e il gennaio 1923, prima che iniziassero a funzionare le appena create province di Pola e di Trieste). In Italia le Regioni come enti autonomi furono infatti istituite con lo Statuto speciale per la Sicilia (1946), prima, e la Costituzione repubblicana (1948) poi. Anteriormente a tali date le Regioni erano solamente realtà geografico-fisiche e statistiche, dal momento che sul piano politico-amministrativo l’Italia riconosceva solo tre enti territoriali: Stato, Province e Comuni. Durante il periodo fascista il termine di Venezia Giulia si utilizzò diffusamente e nei più svariati contesti (geografici, storici, socioculturali, ecc.). L’impiego reiterato di tale termine venne associato dalle minoranze etniche slovene e croate presenti sul territorio (e apertamente perseguitate dal regime) ad un evidente tentativo di cancellare anche nominalmente la propria presenza dalla Regione.
La politica fascista di italianizzazione forzata delle terre di recente conquista provocò l’emigrazione di un gran numero di tedeschi, sloveni e croati. Molti militari e funzionari pubblici, fra cui la quasi totalità degli insegnanti di lingua slovena e croata furono licenziati o allontanati in vario modo e sostituiti da italiani. L’emigrazione del bracciantato agricolo, dal resto d’Italia alla Venezia Giulia, fu irrilevante, mentre un certo numero di lavoratori dell’industria e di portuali trovarono impiego nei cantieri di Monfalcone, nella zona industriale di Trieste e nei porti di Trieste, di Pola e (successivamente) di Fiume.
Durante la Seconda guerra mondiale, dopo l’invasione della Jugoslavia nell’aprile 1941 da parte dell’Italia e della Germania, la Provincia di Fiume venne ingrandita e la Venezia Giulia si accrebbe dell’entroterra fiumano.
Come conseguenza dello smembramento della Jugoslavia nel 1941 si modificarono (e crearono) le seguenti Province del “Compartimento statistico della Venezia Giulia”:
la provincia del Carnaro (1924-1947) comprendeva Fiume, la Liburnia (con la città di Abbazia) e l’alta valle del Timavo (con la città di Villa del Nevoso). Dopo il 1941 la sua superficie verrà ampliata con l’inclusione di tutto l’entroterra orientale di Fiume, arrivando anche a comprendere le isole di Veglia e Arbe e la città di Buccari. Faceva parte del “Compartimento statistico della Venezia Giulia”.
la provincia di Lubiana (1941-1943) comprendeva la Slovenia centro-meridionale e aveva, essendo abitata da sloveni, come lingue ufficiali l’italiano e lo sloveno. Fu inclusa nel “Compartimento statistico della Venezia Giulia”.
la provincia di Zara (1920-1947) che comprendeva fino al 1941: il comune di Zara, e le isole di Cazza e Lagosta (distanti 200 km da Zara), Pelagosa (distante 250 km da Zara) e l’isola di Saseno, di fronte all’Albania a ben 525 km da Zara e faceva parte del “Compartimento statistico della Venezia Giulia”. Dal 1941 al 1943 la provincia comprendeva Zara e il suo entroterra, più le isole davanti a Zara che passarono sotto sovranità italiana, divenendo parte, assieme alle province di Spalato e Cattaro, del Governatorato della Dalmazia.
Nel settembre 1943 la Venezia Giulia fu occupata dalle truppe tedesche, pur senza essere formalmente annessa al Terzo Reich. Passò comunque in quello stesso mese a dipendere dal gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer, nominato per l’occasione commissario supremo del Litorale Adriatico.
 

La questione giuliana

Modifiche al confine orientale italiano dal 1920 al 1975.
Il Litorale austriaco, poi ribattezzato Venezia Giulia, che fu assegnato all’Italia nel 1920 con il trattato di Rapallo (con ritocchi del suo confine nel 1924 dopo il trattato di Roma) e che fu poi ceduto alla Jugoslavia nel 1947 con i trattati di Parigi.


Nel 1954 le truppe anglo-americane lasciarono la “zona A”, affidandone l’amministrazione militare all’Italia.
La diatriba tra Italia e Jugoslavia per la linea di demarcazione tra le due zone del territorio Libero ebbe risoluzione con il trattato di Osimo, del 10 novembre 1975. Alla fine della Seconda guerra mondiale la questione della Venezia Giulia fu oggetto di attenzioni internazionali, essendo le province di Zara, Pola, Fiume, Gorizia e Trieste (nonché parti della provincia di Udine) reclamate dalla Jugoslavia in quanto “terre slave”. In questo contesto si inserisce anche la nascita della definizione slovena Julijska krajina. In realtà già durante il ventennio fascista questo nome fu molto utilizzato dagli sloveni e croati dei territori annessi all’Italia, nelle denominazioni delle loro organizzazioni. Così ad esempio, nel 1932, l’associazione degli esuli sloveni e croati in Jugoslavia fu denominata “Unione degli emigranti jugoslavi dalla Julijska krajina”. Questa definizione non è, come spesso si crede, la traduzione slovena di “Venezia Giulia”, mancando la parola “Venezia”: è invece un nome creato dagli sloveni in alternativa all’osteggiato “Venezia Giulia”.
Dopo la seconda guerra mondiale la massima parte della regione è passata a Slovenia e Croazia, allora parti della Jugoslavia. In quel periodo si verificò l’emigrazione massiccia del gruppo etnico italiano (270.000 profughi circa secondo le stime del Ministero degli esteri italiano, 250.000 secondo le stime dell’Opera Profughi, 190.000 secondo gli studi condotti in Slovenia e Croazia, 301.000 secondo recenti studi storico-statistici), dovuta sia alle persecuzioni titine che ad altre cause, non ultime quelle di indole economica e sociale. Anche un certo numero di croati e di sloveni abbandonò la Venezia Giulia annessa e/o amministrata dalla Jugoslavia perché contrari al regime dittatoriale instaurato da Tito.

Con la fine della Seconda guerra mondiale e la costituzione della Repubblica Italiana, il nome Venezia Giulia fu utilizzato per la prima volta in una denominazione amministrativa ufficiale. Infatti la Costituzione repubblicana previde la creazione della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, nata dall’unione della Provincia di Udine (che allora comprendeva anche la Provincia di Pordenone, istituita solo nel 1966) con quello che rimaneva all’Italia delle terre conquistate alla fine della Prima guerra mondiale.
Il nome venne proposto dal deputato friulano Tiziano Tessitori, come alternativa alla denominazione Regione giulio-friulana e Zara, proposta dal triestino Fausto Pecorari.
La decisione di costituire una regione che contenesse anche la denominazione “Venezia Giulia” e che fosse retta da uno speciale statuto di autonomia, rispose ad una duplice motivazione: da un lato s’intendeva dare attuazione al dettato del Trattato di pace, per cui “per le minoranze etniche sono da accordarsi delle garanzie”, dall’altra si voleva indicare – anche simbolicamente – la speranza che Trieste e l’Istria venissero assegnate all’Italia, in un’auspicata revisione delle clausole del Trattato stesso.
Questa denominazione innescò per la prima volta nella storia una tensione tra la fazione autonomistica dei friulani (che reclamavano una regione esclusivamente propria) e Trieste. Tale tensione (che si acuì nei primi anni sessanta quando la Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia venne effettivamente costituita) si tradusse anche nell’opposizione da parte di alcuni esponenti friulani alla legittimità storica dell’uso del termine Venezia Giulia e in divergenze di pensiero sulla delimitazione dei due territori. Per i friulani – infatti – la Venezia Giulia attualmente corrisponderebbe alla sola provincia di Trieste, mentre per i triestini, invece, essa includerebbe anche la provincia di Gorizia (interamente o in gran parte). Va pertanto sottolineato che le due entità storico-territoriali possono considerarsi, almeno secondo alcune accezioni, parzialmente sovrapposte.

Oggi, quindi, la Venezia Giulia è per molti quanto rimane del Territorio Libero di Trieste assegnato all’Italia alla fine della seconda guerra mondiale e, secondo un’opinione diffusa, anche di parte di quella di Gorizia (in particolare la sua parte venetofona, e cioè la Bisiacaria), che pur faceva anticamente parte del Friuli storico. Per quanto riguarda Grado e Marano Lagunare, la loro appartenenza alla Venezia Giulia è oggetto di discussioni. Pur essendo infatti i due centri venetofoni, (Grado è la patria del massimo poeta italiano in lingua veneta del Novecento, Biagio Marin), furono anch’essi secolarmente legati al Friuli e allo stato patriarcale di Aquileia.


Come s’è già rilevato, il confine fra la parte giuliana e la parte friulana della regione Friuli-Venezia Giulia non è ben definito. Identificando in ipotesi la Venezia Giulia con i territori che giacciono ad est della provincia di Udine, questa attualmente comprenderebbe le province di Gorizia e di Trieste, nelle quali è concentrata la parte maggiore della minoranza slovena in Italia.
Nell’attuale Venezia Giulia l’Italiano, lingua ufficiale dello Stato italiano, è la lingua più diffusa, con uno status dominante e viene parlata, accanto ad altre lingue neolatine e/o loro dialetti, dalla gran maggioranza della popolazione.
I dialetti romanzi parlati sono di tipo veneto: il triestino è una parlata che ha sostituito il tergestino, che era un più antico idioma retoromanzo (strettamente imparentato al friulano). Infatti dopo il 1719 – anno in cui Casa d’Austria scelse Trieste per costruire il suo principale porto commerciale – la popolazione triestina passò dai seimila abitanti del 1740 agli oltre duecentomila di metà Ottocento, provocando un cambio linguistico determinato dalla massiccia immigrazione di popolazioni di lingua veneta coloniale provenienti principalmente dalla costa istriana. Costoro emigravano a Trieste attratti da migliori prospettive di lavoro. L’antico dialetto tergestino di tipo retoromanzo continuò ad essere utilizzato ben oltre questa sostituzione, per circa un secolo, solo come lingua nobiliare.
Parimenti anche a Muggia era diffuso un idioma retoromanzo, il muggesano, che sopravvisse lungamente al tergestino, spegnendosi solo con la morte del suo ultimo parlante, Giuseppe de Jurco, nel 1887. Attualmente a Muggia, l’unico comune istriano rimasto all’Italia dopo l’ultima guerra, si parla un dialetto istroveneto profondamente influenzato dal triestino
Il dialetto bisiaco è invece un idioma risultato della progressiva venetizzazione della popolazione originariamente friulanofona e, in minor misura, slovenofona, storicamente appartenente al Friuli. La dominazione veneziana (che aveva in Monfalcone una strategica enclave in questo estremo lembo della pianura friulana) e la vicinanza di Trieste venetizzarono in tal modo la parlata originaria, la cui origine risulta in parte dalla persistenza di un certo numero di elementi lessicali del friulano nonché dello sloveno, anche dall’esistenza di piccole isole linguistiche friulane sparse nel proprio territorio, oggi in fortissimo regresso e sopravviventi solo nell’area prossima all’Isonzo e slovene adiacenti al Carso. Secondo una teoria, confermata da documenti e sostenuta da molti linguisti e storici, l’attuale dialetto bisiaco deve la sua origine ad un ripopolamento in età rinascimentale del territorio oggi chiamato Bisiacaria, e fino ad allora abitato esclusivamente da friulanofoni e, in minor misura, da sloveni. I nuovi arrivati, di parlata veneta e veneto-orientale (un modello veneto diffuso all’epoca in Istria in Dalmazia), non erano in numero sufficiente per dar vita ad una sostituzione linguistica (come invece accadrà a Trieste a partire dal 1800). Per cui si ebbe, sul piano linguistico, una lenta fusione con la precedente realtà friulanofona/slavofona. Da qui la forte presenza del sostrato friulano e sloveno, sia nel lessico che nella morfologia nel bisiaco parlato, fino almeno agli anni trenta e quaranta del Novecento. Oggigiorno il dialetto bisiaco ha perso molte delle proprie connotazioni originarie e risulta essere fortemente triestinizzato, tanto che molti parlanti ritengono che la parlata tradizionale della propria terra sia ormai quasi scomparsa.
Vi è quindi il gradese, una variante veneta arcaica parlata a Grado e nella sua laguna e ritenuta endemica della località, similmente alla parlata (ancor più arcaica) della vicina località lagunare friulana di Marano. Il Gradese e, più in generale, il veneto coloniale, ha avuto come massimo esponente il poeta Biagio Marin.
Lo sloveno, è, nella maggior parte delle zone in cui è diffuso, lingua amministrativa e di cultura insieme all’italiano. Parlate slovene sono utilizzate nell’entroterra carsico italiano e nella stessa città di Trieste. Lo sloveno, nonostante il grande afflusso di esuli istriani nel secondo dopoguerra (particolarmente accentuato nel decennio 1945-1955) in zone etnicamente slovene fin da età medievale, continua ad essere lingua maggioritaria in tre dei 6 comuni che compongono la provincia di Trieste, oltreché nelle frazioni carsiche del capoluogo giuliano (Villa Opicina, Basovizza, ecc.) e nel Carso goriziano.
Inoltre, considerando l’intera provincia di Gorizia (e non solo la Bisiacaria) come facente parte della Venezia Giulia, bisogna aggiungere lo sloveno, parlato nel Collio, sul Carso goriziano e nella città stessa, il Dialetto goriziano nonché la lingua friulana diffusa, da sempre, nella parte settentrionale della provincia e nel capoluogo (nella sua varietà goriziana).
Riguardo alla definizione del termine “giuliano”, è da notare che l’” Associazione giuliani nel mondo” ammette come propri soci “i corregionali di identità e di cultura italiana provenienti dalla Venezia Giulia, dall’Istria, da Fiume, dalle isole del Quarnero e dalla Dalmazia (…) residenti all’estero e nelle altre regioni italiane e loro discendenti”, escludendo di conseguenza i non italiani. La stessa preclusione nazionale è prevista anche dallo statuto dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.


Elenco dei comuni della Venezia Giulia italiana.


Il territorio della Venezia Giulia, durante la sua appartenenza all’Italia tra il 1919 e il 1947 era suddiviso in 128 comuni ripartiti, dal 1927, fra 5 province. Dopo la Seconda guerra mondiale, da cui l’Italia era uscita sconfitta, 98 comuni (fra cui 3 intere province) furono assegnati dall’Accordo di Pace di Parigi – 10.2.1947 – completamente alla Jugoslavia. Nel 1947, con la firma del Trattato di pace, Trieste, assieme ad alcune località situate in una stretta fascia costiera, divenne indipendente sotto il controllo militare alleato con la costituzione del Territorio Libero di Trieste (diviso fra la zona A – Trieste e dintorni – e zona B – Istria nord-occidentale). Come conseguenza, il mandamento di Monfalcone, corrispondente alla Bisiacaria, venne restituito alla provincia di Gorizia cui era stato legato per secoli. Con il Memorandum d’intesa di Londra del 5 ottobre 1954, l’amministrazione civile della zona A del Territorio Libero di Trieste fu assegnata all’Italia, salvo alcune rettifiche territoriali a favore della Jugoslavia che però costrinsero le autorità garanti a tracciare una nuova linea di confine, sostitutiva della precedente demarcazione tra le zone A e B. Successivamente, con il Trattato di Osimo del 1975, tale confine, considerato, anche per motivi di ordine interno, provvisorio dalle due parti per oltre vent’anni (1954-1975), venne reso definitivo dall’Italia e dalla Jugoslavia. (Fonti: Wikipedia)

Istria di ieri e di oggi

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Per chi visita l’Istria, per diletto o per turismo estivo, la conoscenza di questa meravigliosa penisola è sicuramente subordinata ai suoi fatti storici. Dalla conquista romana alle invasioni barbariche, dal dominio della Serenissima a quello di Casa d’Austria, e infine sotto il Regno d’Italia, quando dopo l’ultimo conflitto si è visto il grande esodo della maggioranza della popolazione italiana. Una lunga storia che ha plasmato e anche sconvolto l’essenza di questa terra.
L’Istria (in latino Histria, in croato e sloveno Istra), è una penisola di forma triangolare che si estende nel mar Adriatico tra il Golfo di Trieste, le Alpi Giulie, le Alpi Dinariche e il Golfo del Quarnaro.
Il territorio è amministrato dalla Slovenia nelle città costiere di Ancarano, Isola, Portorose, Pirano e Capodistria; dalla Croazia per gran parte della sua estensione; per una minima parte si trova in territorio italiano, nei comuni di Muggia e di San Dorligo della Valle.
Vi si distinguono tre tipi di paesaggi, ognuno dominato da una colore caratteristico: l’Istria bianca, per le rocce calcaree di morfologia montuosa, che si eleva fino al Monte Maggiore con i suoi 1396 metri; l’Istria gialla (o grigia), dal colore dei suoi terreni ricchi di rocce sedimentarie quali argilla, marna e arenaria (occupa la zona centrale della regione e si estende dal Golfo di Trieste al Quarnaro); l’Istria rossa, che presenta uno strato di terra rossa poggiato su rocce calcaree (è un altopiano che si estende dalle zone meridionali e occidentali fino a raggiungere le coste).
I fiumi istriani hanno le loro sorgenti nell’Istria gialla: sul versante occidentale troviamo il Rosandra, il Risano, il Dragogna e il Quieto, mentre su quello orientale l’Arsa. Il Quieto, lungo 53 km, sorge nei pressi di Pinguente e sfocia nel Mare Adriatico, nelle vicinanze di Cittanova d’Istria.
Lungo la costa prevale un clima tipicamente mediterraneo, mentre verso l’entroterra diviene sempre più continentale per l’influsso dell’aria fredda proveniente dalle Alpi Giulie e dalle montagne circostanti. Le estati si presentano lunghe e asciutte, mentre gli inverni sono miti, con rare nevicate.
I venti caratteristici sono la Bora, lo Scirocco e il Maestrale. La Bora soffia da nord verso sud recando un tempo asciutto e sereno; lo Scirocco, vento caldo, porta pioggia, mentre il Maestrale soffia d’estate dal mare verso la terraferma.

Dall’adesione della Slovenia all’Unione europea sono stati aboliti i controlli frontalieri tra Italia e Slovenia, rendendo la porzione settentrionale dell’Istria uno spazio senza barriere di confine. Il 1º luglio 2013 la Croazia ha aderito all’Unione europea, ma non rientra ancora nella zona Schengen, per cui permangono controlli alle frontiere. Nell’Istria italiana e nell’Istria slovena si usano gli euro; invece nell’Istria croata si usano le kune.
L’Istria resta legata per motivi storici, geografici e culturali al Friuli-Venezia Giulia e al Veneto. Le due regioni italiane prevedono nei propri bilanci dei capitolati di spesa a sostegno della minoranza italiana per il mantenimento delle memorie storiche istro-venete.
 
 

Nomi delle località dell’Istria in italiano, sloveno o croato
(in ordine alfabetico):

Abbazia / Opatija
Abrega / Vabriga
Acquaviva dei Vena / Rakitovec
Albaro Vescovà / Škofije
Albona / Labin
Albuciano / Kaštelir
Altura / Valtura
Antenale / Antenal
Antignana / Tinjan
Antignano d’Istria / Tinjan
Apriano / Veprinac
Aquaro / Potok
Aquilinia / Žavlje
Arsia / Raša
Bàbici di Maresego / Babiči
Badòs / Bados
Bagnoli della Rosandra / Boljunec
Baldassi / Baldaši
Baratro di Canfanaro / Barat
Baratro di Visignano / Barat
Barbana / Barban
Barbariga / Barbariga
Baredine di Buie / Baredine
Bassania / Bašanija
Becca / Beka
Bellai / Belaj
Bercenigla / Bercenigla
Berda di Sovignacco / Sovinjska Brda
Bergozza / Brgudac
Bergut / Brgud
Bersezio / Brseč
Bertocchi / Bertoki
Bertozzi / Brtoši
Besovizza / Bezovica
Bibali / Bibali
Bogliuno / Bolj un
Borutto / Borut
Bossamarin / Bošamarin
Boste / Boršt
Bottonega / Butoniga
Bresca / Brežca
Bresenza del Taiano / Presnica
Bresovizza / Brezovica pri Gradinu
Briani / Brdo
Brioni / Brij un
Buie d’Istria / Buje
Businia / Bužinija
Bùttari / Butari
Cadun / Kadun
Caldania / Kaldanija
Caldier / Kaldir
Campi d’Altura / Valturške Njive
Canale d’Arsa / Zaljev Raša
Canal di Leme / Limski zaljev
Canfanaro / Kanfanar
Capodistria / Koper
Carbocici / Krbavčiči
Carcase / Krkavče
Caresana / Mačkovlje
Carlisburgo / Zburgo
Carnizza / Krnica
Carnizza d’Arsa / Krnica
Caroiba del Subiente / Karojba
Carpano / Krapan
Carpignano / Karpinjan
Carsette / Karšete
Casali Sumberesi / Šumber
Castagna / Kostanjevica
Castagna / Kostanjica
Castelbianco / Bielograd
Castelli / Kastelec
Castellier di Visinada / Kaštelir
Castelnero / Črnograd
Castelnuovo d’Arsa / Rakalj
Castelnuovo d’Istria / Podgrad
Castelvenere / Kaštel
Castelverde / Grdo selo
Cattunari di Piscine / Katunari
Cattunari di Valle / Donji Katunari
Cattuni di Bogliuno / Katun
Cattuni di Cosliacco / Katun
Cattuni di Gallignana / Katun Gračanski
Cattuni di Lindaro / Katun Lindarski
Cattuni di Mompaderno / Katun
Cattuni di Sumberg / Katun
Catun di Castelverde / Katun
Cavrano / Kavran
Centora / Centur
Ceppi di Sterna / Čepić
Cerclada / Črklada
Cere / Cere
Cerei / Cerej
Ceresgnevizza / Čeresnjevica
Cerion / Cerion
Cernizza Pinguentina / Črnica
Cernotti / Črnotiče
Cerreto / Cerovlje
Cervera / Črvar
Cesari / Čežarji
Cherbune / Krbune
Chercus / Krkus
Chersano / Kršan
Chersicla / Kršikla
Chervoi / Hrvoji
Chiampore / Campore
Cirites / Zakno
Cissa / ?
Cittanova / Novigrad
Clenosciacco / Klenovščak
Collabo / Brda
Colmo / Hum
Coreni / Korenići
Corridico / Kringa
Corte d’Isola / Korte
Corte (nei pressi di Valmorasa) / Dvori
Cosina / Kozina
Cosliacco / Kozljak
Costabona / Kostabona
Covedo / Kubed
Crassizza / Krasica
Crevatini / Hrvatini
Cristoglie / Hrastovlje
Crocera di Montetoso / Križišče
Cropignaco / Kropinjak
Cuberton / Kuberton
Cucibreg / Kučibreg
Daila / Dajla
Danne / Dane
Dignano / Vodnjan
Dolegna / Dolenja vas
Draga di Santa Marina / Moščenička draga
Draga o Dosso di Laurana / Lovranska draga
Draga Sant’Elia / Draga
Draguccio / Draguč
Duecastelli / Dvigrad
Duori / Dvori
Elleri / Jelarji
Erpelle / Hrpelje
Farnei / Frnej
Fasana / Fažana
Felicia / Čepić
Ferenzi / Ferenci
Fianona / Plomin
Figarola / Smokvica
Figarola di Dragogna / Fijeroga
Filippano / Filipana
Fontane / Funtana
Foscolino / Fuškulin
Frassineto / Jesenovica
Fratta / Preseka
Gabrovizza d’Istria / Gabrovica
Gallesano / Galižana
Gallignana / Gračišće
Gallovici / Golovik
Gambozzi / Gamboci
Gasòn / Gažon
Gelovizza / Jelovice
Geme / Glem
Geroldia / Gradina
Giadreschi / Jadreški
Gimino / Žminj
Giubba / Djuba
Giurizzani / Juricani
Giussici / Jušiči
Golazzo / Golac
Golzana Vecchia / Stari Gočan
Goregna / Gorenja vas
Gracischie / Gračišče
Gràdena / Gradinja
Gradigne / Gradinje
Gradigne / Gradinje
Gradischie di Castelnuovo / Gradišče
Gregori / Gregoriči
Grimalda / Grimalda
Grisignana / Grožnjan
Grobenico / Grobnik
Ica / Ika
Icici / Ičići
Ieseni / Ježenj
Iessenoviza / Jesenovik
Isola d’Istria / Izola
Laghini / Laginji
Lanischie / Lanišče
Laura / Labor
Laurana / Lovran
Lavarigo / Loborika
Lazzaretto / Lazaret
Lazzaretto del Risano / Lazaret
Lesischine / Lesišćina
Letai / Letaj
Levade / Levade
Lindàro / Lindar
Lisignano / Ližnjan
Lonche / Loka
Loparo / Lopar
Loreto / Loret
Lozzari / Lozari
Lupogliano / Lupoglav
Madonna del Carso / Marija na krasu
Madonna del lago / Kloštar
Mallo / Maljia
Manzano / Manžan
Marcenigla / Marčenigla
Marcossina / Markovščina
Maresego / Marezige
Marusici / Marušiči
Marzana / Marčana
Matterada / Materada
Matteria / Materija
Mattuglie / Matulji
Medea / Medveja
Medolino / Medulin
Medrosani / Modrušani
Merischie / Merišče
Milino / Mlun
Moccò / Sabrežec
Momarano / Mutvoran
Momiano / Momjan
Moncalvo di Pisino / Gologorica
Moncodogno / Monkodonja
Mondellebotte / Bačva
Monghebbo / Mugeba
Monsalice / Mušaleć
Monspinoso / Dracevaz
Monte di Capodistria / Šmarje
Monte Ursino / Vrčin
Montecroce di Gimino / Krajcar breg
Montelino di San Vitale / Medelin
Monte Maggiore / Učka
Monte Sermino / Srmin
Montemillotti / Milotič breg
Monterosso / Crveni vrh
Monticchio Polesano / Montić
Montignano / Montinjan
Montona / Motovun
Montreo / Muntrilj
Montrino / Montrin
Morgani / Mrgani
Morno / Murine
Moschiena / Moščeniée
Muggia / Milje
Mune / Mune
Musil / Mužilj
Naserze / Nasirec
Nesazio / Visače
Nigrignano / Gradina
Noghere / Oreh
Novacco di Montona / Novaki motovunski
Novacco di Pisino / Novaki pazinski
Nugla / Nugla
Obrovo S. Maria / Obrov
Occisla / Ocizla
Ocretti / Okreti
Olmeto di Bogliuno / Brest pod Učkom
Olmeto di Pinguente / Brest
Omoschizze / Omošcice
Orsera / Vrsar
Oscurus / Oskoruš
Ospo / Osp
Pàdena / Padna
Parenzo / Poreč
Passiaco / Pasjak
Passo / Paz
Paugnano / Pomjan
Pèdena / Pičan
Permani / Permani
Peroi / Peroj
Petrigna / Petrinje
Petrovia / Petrovija
Piedalbona / Podlabin
Piedimonte del Taiano / Podgorje
Piemonte d’Istria / Završje
Pietra Pelosa / Kaštel
Pietrabianca / Beli kamen
Pinguente / Buzet
Pirano / Piran
Pisino / Pazin
Pisinvecchio / Stari Pazin
Plavia Monte d’Oro / Plavje
Pobeghi / Pobegi
Podgace / Podgače
Pogliane di Castelnuovo / Poljane pri Podgradu
Pola / Pula
Polie di Rozzo / Ročko Polje
Pomer / Pomer
Ponte Portòn / Ponte Portòn
Popecchio / Podpeč
Popetra / Popetre
Porgnana / Prnjani
Porto Albona / Rabac
Porto Quieto / Luka Mirna
Portole / Oprtalj
Portorose / Portorož
Potocco / Potok
Praporchie / Praproče
Prapozze / Praproče pod Podpeč
Prebenico / Prebeneg
Pregara / Pregara
Prelocca / Predloka
Previs / Previž
Pribetici / Antonci
Promontore / Premantura
Punta / Punta
Puzzole / Puče
Quieto / Mirna
Rabuiese / Rabujez
Raccotole di Montona / Rakotole
Racla / Račja vas
Racizze / Račice
Racizze di Castelnuovo / Račice
Rappavel / Rapavel
Raspo / Rašpor
Risano / Rižana
Riva di Moschiena / Kraj
Rojal / Jural
Rosario di Visinada / Ružar
Rosaria / Rožar
Roveria / Juršići
Rovigno / Rovinj
Rozzo / Roč
Ruccavazzo / Rukavac
Rupa / Rupa
Santa Lucia di Pirano / Lucija (o semplicemente Lucia)
S. Antonio in Carso / Sv. Anton
S. Barbara / Korošci
S. Bartolomeo / Sv. Jerneia
S. Bartolomeo di Montona / Sveti Bartol
S. Brigida / Sv. Brida
S. Canziano / Škocjan
S. Caterina / Katarina
S. Colombano / Sv. Kolomban
S. Cristoforo /
S. Croce di Pinguente / Sv. Križ
S. Dionisio / Sv. Dionizij
S. Domenica d’Albona / Nedešcina
S. Donato / Sv. Donat
S. Dorligo della Valle / Dolina
S. Elena di Pinguente / Sv. Jelena
S. Elena di Portole / Sv. Jelena
S. Floriano / Sv. Florjan
S. Floriano del Carso / Sv. Florijan
S. Giorgio al Quieto / Sv. Juraj
S. Giorgio di Piemonte / Sv. Juraj
S. Giovanni d’Arsa / Cvitići
S. Giovanni della Cornea / Sv. Ivan kornetski
S. Giovanni in Carso / Sv. Ivan
S. Giuseppe della Chiusa / Ricmanje
S. Leonardo di Portole / Sv. Leonardo
S. Lorenzo di Daila / Lovrečica
S. Lucia di Portole / Sv. Lučija
S. Marina d’Albona / Sv. Marina
S. Martino d’Arsa / Posert
S. Martino pinguentino / Martin
S. Michele / Miheli
S. Michele (Muggia) / Sv. Mihel
S. Michele in Monte / Gortanov Breg
S. Nicolò d’Oltra / Valdoltra
S. Onofrio / Sv. Onofrij
S. Pelagio di Piemonte / Sv. Pelagij
S. Pellegrino / Pelegrin
S. Pietro / Sv. Petar
S. Pietro dell’Amata / Raven
S. Pietro di Madrasso / Klanec pri Kozini
S. Pietro di Montrino / Fratrija
S. Pietro di Piemonte / Sv. Petar
S. Pietro di Salvore / Sv. Petar
S. Pietro in Sorbar / Sv. Petar
S. Quirico / Socerga
S. Rocco / Sv. Rok
S. Sergio / Črni Kal
S. Silvestro di Portole / Sv. Silvestar
S. Sòline / Sv. Solin
S. Stefano al Quieto / Gradaz
S. Tomà / Sv. Tomaz
S. Vitale di Visignano / Vital
Salise / Salež
Salvore / Savudrija
San Giovanni della Cisterna / Kaštel
San Lorenzo del Pasenatico / Lovreć
San Lorenzo del Rosandra / Jezero
San Michele di Leme / Kloštar
San Michele Sotto Terra / Sv. Mihel pod Zemlja
San Pancrazio di Montona / Brkać
San Pietro in Selve / Sv. Petar u Šumi
San Servolo / Sočerb
San Vito di Umago / Vid
Sanigrado / Zanigrad
Sant’Antonio di Capodistria / Sv. Anton
Sant’Antonio in Bosco / Boršt
Santa Domenica di Visinada / Labinci
Santa Maria del Campo / Bozje polje
Sanvincenti / Svetvinčenat
Sappiane / Šapiane
Saredo / Sared
Sarezzo / Zarečje
Sasseto / Zazid
Sbandati / Šbandaj
Scandaussina / Skadanščina
Scattari / Škatari
Schitazza / Skitaća
Scopliaco / Skopljak
Seghetto / Seget
Segnacco / Senj
Seiane / Zejane
Semedella / Semedela
Semi / Semič
Sergassi / Srgaši
Sezza / Seča
Siana / Šijana
Sicciole / Sečovlje
Sichici / Sikići
Silun Mont’Aquila / Slum
Sipar / Sipar
Sissano / Šišan
Sorbàr / Sorbar
Sossi / Soški
Sovignacco / Sovinjak
Sovischine / Soviština
Staràda / Starod
Sterna / Sterna
Sterpeto / Štrped
Stignano / Stinjan
Strana / Strana
Stridone / Zrenj
Strugnano / Strunjan
Subiente / Subjente
Suonecchia / Zvoneče
Terme di Santo Stefano / Istarske Toplice
Tersecco / Trsek
Terstenico / Trstenik
Terviso / Trviž
Tibole / Tibole
Tizzano / Tičan
Toppolo in Belvedere / Topolovec
Torre / Tar
Trebesse / Trebese
Tribano di Buie / Triban
Truscolo di Paugnano / Truške
Tubliano / Tublje
Tupliaco / Tupljak
Umago / Umag
Valaron / Valaron
Valcarino / Valkarin
Valdarsa / Šušnjevica
Valdibecco / Valdebek
Valfontane / Valfontane
Valizza / Valica
Valle / Bale
Valmorasa / Movraž
Vanganello / Vanganel
Varvari / Vrvari
Vergnacco / Vrnjak
Vermo / Beram
Verteneglio / Brtonigla
Veruda / Veruda
Vestre / Veštar
Vetta / Vrh
Vettua S. Martino / Martinski
Villa Crasca / Malakrasa
Villa Decani / Dekani
Villa Questi / Villa Kvešti
Villa di Rovigno / Rovinjsko selo
Villa Padova / Kaščerga
Villa San Marco / Markovac
Villadolo / Dol
Villania / Vilanija
Villanova al Leme / Selina
Villanova d’Arsa / Nova vas
Villanova del Quieto / Novavas
Villanova di Parenzo / Nova vas
Villanova di Pirano / Novavas
Vines / Vinež
Visignano / Višnjan
Visinada / Vižinada
Vodizze / Vodice
Volosca / Volosko
Vosilla / Vozilići
Vragna / Vranja
Vragnasella / Vranja selo
Zacchigni / Cakinji
Zamasco / Zamask
Zambrattìa / Zambratija
Zindis / Zindis
Zugni / Cunj

Fonti: Dario Alberi, Istria Storia Arte e Cultura; Wikipedia