Muggia vecchia anni ’70

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Muggia vecchia anni ’70

Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Muggia vecchia anni ’70

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Muggia vecchia anni ’70

Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Muggia anni ’70

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Muggia anni ’70

Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Muggia anni ’70, il porticciolo con le barche

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Muggia anni ’70, il porticciolo

Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Muggia anni ’70, il porticciolo

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Muggia anni ’70, il porticciolo

Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Muggia anni ’70, salita al Castello

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Muggia anni ’70, salita al Castello

Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Muggia anni ’70, salita al Castello

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi


Muggia anni ’70, salita al Castello

Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Muggia anni ’70, l’arco con il Leone di San Marco

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Muggia anni ’70, l’arco con il Leone di San Marco

Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Muggia anni ’70, pescatori

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Muggia anni ’70, pescatori – Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

TRIESTE – Via della Rotonda, ai tempi del cinema Radio

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Via della Rotonda, ai tempi del cinema Radio
Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Trieste – Il Tergesteo nei suoi anni migliori

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi




Il Tergesteo nei suoi anni migliori
Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Trieste – Cittavecchia anni ’60/’70

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Cittavecchia anni ’60/’70
Foto: ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Trieste – Largo Sidney Sonnino anni ’70/’80

Per iscrivervi al Gruppo cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi



Largo Sidney Sonnino (anni ’70/’80)
Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Pedena / Pićan 1971, tettoie di paglia a scorrimento verticale per la protezione del fieno

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Pedena / Pićan 1971(Foto: Sergio Sergas)

Tettoie di paglia a scorrimento verticale per la protezione del fieno all’aperto, man mano che il foraggio veniva consumato, venivano abbassate. oggi con l’avvento delle BALLE queste tecniche sono state abbandonate e la loro costruzione quasi o del tutto dimenticata.

Nell’antichità Pedena era un “castrum” romano, posto su una collina di 360 metri, al centro dell’Istria, circondato da una cerchia di muraglioni. Con le frazioni contava 2.500 abitanti. Il cristianesimo vi entrò con S. Ermagora nel 50 d.C. attraverso l’unica porta detta “romana”. Nella cattedrale, davanti al trono vescovile, si allungano nelle tre navate le tombe dei vescovi che la ressero dal V secolo fino al 1788, quando Giuseppe II, figlio di Maria Teresa, la soppresse. Fu chiamato “imperatore sacrestano” perché volle riformare la chiesa sopprimendo 2.000 conventi. La sua politica passò alla storia col nome di “giuseppinismo”.

Sergio Sergas: Fotografo e videoamatore classe 1947, da cinquant’anni documenta la città di Trieste e il Territorio, con una particolare attenzione alle tradizioni delle popolazioni istriane. Suoi più di 1500 video, pubblicati su You Tube e Fb.

Pedena / Pićan 1976

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:



Pedena / Pićan 1976(Foto: Sergio Sergas)

Antichi sistemi per la conservazione del fieno all’aperto, in riva all’immancabile laco per l’abbeverata. Questo posto si trovava a poche decine di metri dall’ingresso alla città. Pedena era una delle sedi vescovili più antiche, piccole e longeve al mondo, ma sicuramente la più povera.

Nell’antichità Pedena era un “castrum” romano, posto su una collina di 360 metri, al centro dell’Istria, circondato da una cerchia di muraglioni. Con le frazioni contava 2.500 abitanti. Il cristianesimo vi entrò con S. Ermagora nel 50 d.C. attraverso l’unica porta detta “romana”. Nella cattedrale, davanti al trono vescovile, si allungano nelle tre navate le tombe dei vescovi che la ressero dal V secolo fino al 1788, quando Giuseppe II, figlio di Maria Teresa, la soppresse. Fu chiamato “imperatore sacrestano” perché volle riformare la chiesa sopprimendo 2.000 conventi. La sua politica passò alla storia col nome di “giuseppinismo”.

Sergio Sergas: Fotografo e videoamatore classe 1947, da cinquant’anni documenta la città di Trieste e il Territorio, con una particolare attenzione alle tradizioni delle popolazioni istriane. Suoi più di 1500 video, pubblicati su You Tube e Fb.

Ippodromo di Montebello, anni ’20

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi
Ippodromo di Montebello, anni ’20. (Post di Giancarla Scubini)


L’Ippodromo di Montebello venne realizzato su progetto di Ruggero Berlam, con la grande pista ellittica, le tribune e il palco in legno in stile Liberty. Venne inaugurato il 4 settembre 1892 alla presenza di 15.000 spettatori.
Ci fu una gran festa ippica e mondana alla presenza di nobili e autorità, con sfoggio di carrozze e toilette. Lo stesso giorno, per l’occasione, si tennero anche in città varie manifestazioni e festeggiamenti con la partecipazione dell’orchestra e del coro in Piazza Grande, una cavalcata a Sant’Andrea e una gita nel golfo con il piroscafo Hungaria.

Grisignana / Groznjan, stazione della Parenzana

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Grisignana, Stazione della Parenzana inizi ‘900 (Post di Giulio Ruzzier)

Grisignana, Stazione della Parenzana oggi (Foto di Giulio Ruzzier)

Grisignana, l’antica Graeciniana, il cui nome deriva da Grisium – colle roccioso – è un comune croato di 736 abitanti, nella Regione istriana, che si erge su un colle discosto dalla strada principale.
Fu un importante insediamento in età preromana, e più tardi castrum romano. Popolata da popolazioni autoctone fin dai tempi dell’antica Roma, a Ponte Portòn, nei pressi del fiume Quieto, passava la via consolare romana Flavia e vi era il porto di Bastia, che fu attivo per secoli con il fiume transitabile dall’Antenal di Cittanova fino alle Terme di S. Stefano. Alla foce del torrente che scende da Portole, sorse il monastero benedettino di San Pietro, che dipendeva dall’antico monastero di San Giovanni Battista di Cittanova.
Nel 1100 apparvero alcune notizie di un centro denominato Castrum Grisiniana. Cento anni più tardi entrò a far parte del dominio dei Pietrapelosa, per rimanervi fino al 1339. Da questo periodo ritornerà sotto i patriarchi di Aquileia che la cederanno quale feudo ad alcuni nobili friulani. Grisignana, dopo alterne vicende, passò dal 1358 fino al 1797 sotto il dominio della Repubblica di Venezia. Nel 1359 Dolfin trasferì la sua residenza ufficiale da Umago a Grisignana; tra il 1360 ed il 1367 la cittadina fu fortificata con possenti mura e venne costruito il palazzo Ducale. Verso il 1445, le mura del borgo furono rinforzate per fronteggiare i Turchi. Dopo la peste del 1630 l’area di Grisignana rimase quasi spopolata. Allo scopo di rivitalizzarla Venezia vi trasferì famiglie venete e friulane, croati e morlacchi slavizzati. Dopo il 1797, in seguito al Trattato di Campoformio, Grisignana passò all’Impero Austriaco fino al 1803, quando venne occupata dai francesi; nel 1805, per volere dello stesso Napoleone, passò sotto il neocostituito Regno d’Italia. Con la sconfitta di Napoleone ritornò sotto il dominio dell’Impero Austriaco. Nel 1834 venne in parte ricostruita la chiesetta Santi Cosma e Damiano dotata di un piccolo campanile a vela senza campane. Nel 1770 fu rifatto il Duomo (attestato già nel 1310), in stile barocco. Sono ancora visibili delle fortificazioni risalenti al periodo veneziano, con due porte, di cui la porta Maggiore, dotata di ponte levatoio, reca lo stemma del capitano Pietro Dolfin.
Alla fine della Seconda guerra mondiale Grisignana fu prima inserita della zona “B” del Territorio Libero di Trieste e poi annessa alla Jugoslavia.

Verteneglio – Brtonigla, dalla Loggia di Buie.

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Verteneglio – Brtonigla, dalla Loggia di Buie. In secondo piano a destra l’abitato di Businia – Bužinija. (Foto Paolo Parenzan).

Verteneglio (in croato Brtonigla) è un comune di 1.600 abitanti situato nella parte settentrionale dell’Istria, amministrato dalla Repubblica di Croazia.

Costruito su un antico castelliere preistorico, in precedenza apparteneva al comune di Buie. Il paese, dedito all’agricoltura, fu citato per la prima volta nel 1234 con l’antico nome Ortoneglo o Hortus Niger, ossia orto di terra nera.
Fin dall’epoca carolingia è documentata l’esistenza dell’antico monastero benedettino di San Martino di Tripoli insediatosi su un’altura ancora oggi denominata Monte delle Madri (o Monte delle Monache) posta fuori Verteglio nella zona a sud-est lungo la strada che conduce a Villanova.
Nell’XI secolo si insediarono nella zona nuclei di famiglie venete e nel XVI e XVII secolo contadini slavi in fuga dai turchi. Fece parte della Serenissima Repubblica di Venezia e poi dell’Impero austro-ungarico. Dopo la prima guerra mondiale e quindi il trattato di Rapallo, il paesino entrò a far parte dell’Italia; dopo la seconda guerra mondiale fu incluso nella Zona B del Territorio Libero di Trieste. In seguito venne assegnato alla Jugoslavia.


Monumenti e luoghi d’interesse:


Chiesa di San Zenone
La chiesa parrocchiale di Verteneglio è dedicata a San Zenone, vescovo di Verona e patrono della cittadina. Il soffitto della chiesa è piatto, l’abside poligonale, e le pareti laterali sono decorate da altari di marmo realizzati secondo i principi del neo-barocco. Sulla facciata, di colore giallo ci sono due grandi finestre poste ai lati. Sopra l’entrata si alza un alto campanile rosso, ed ai lati del tetto ci sono due piccole guglie.
La chiesa fu edificata tra il 1859 e il 1861 sulle fondamenta dell’omonima chiesa più antica che datata intorno al 1480.


Parco naturale Scarlini
Il parco naturale di Scarlini è una riserva che si trova a due chilometri da Verteneglio. Prende il nome dal ruscelletto Scarlini, il quale sfocia nel fiume Quieto. All’interno del parco il ruscello ristagnando in una piccola conca forma un lungo stagno di colore verde.

Stridone / Sdregna / Zrenj – anni ’70, cortile della fabbreria Kmet

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone anni ’70, cortile della fabbreria Kmet, al centro le basi in pietra delle incudini e a destra ancora attrezzi agricoli probabilmente diventati obsoleti e mai riparati. (Foto Sergio Sergas)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Si ritiene che questo paese fosse la patria, piuttosto contestata, del dotto scrittore cattolico S. Gerolamo, la cui presenza a Stridone fece sorgere numerose leggende.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra. Ad est, una distesa di arenaria boscosa precipita verso il torrente Brazzana che scorre a 400 metri più in basso, dove resistono le rovine del castello di Pietra Pelosa.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone, a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Sergio Sergas: Fotografo e videoamatore classe 1947, da cinquant’anni documenta la città di Trieste e il Territorio, con una particolare attenzione alle tradizioni delle popolazioni istriane. Suoi più di 1500 video, pubblicati su You Tube e Fb.

Stridone/Sdregna/Zrenj

Stridone / Sdregna / Zrenj

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone/Sdregna/Zrenj – Foto Livio Crovatto.

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde. (Foto Livio Crovatto)

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Meda fatta a regola d’arte, in Zaberniza, provincia di Stridone.

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Meda fatta a regola d’arte, in Zaberniza, provincia di Stridone.

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde. (Foto Livio Crovatto)

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Fienagione. (Stridone, anni ’70)

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Fienagione. Stridone, anni ’70 (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Una delle più antiche case di Stridone, fine ‘700.

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Una delle più antiche case di Stridone fine ‘700. (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Vita quotidiana a Stridone, primi anni ’80.

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Vita quotidiana a Stridone, primi anni ’80.(Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Frazione di Poli, tra Stridone e Bagni di Santo Stefano.

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Frazione di Poli, tra Stridone e Bagni di Santo Stefano.(Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj, fine anni ’70. L’arte “de bater fasioi”

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone / Sdregna / Zrenj, fine ’70. L’arte “de bater fasioi” (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj. Campagne nei dintorni di Stridone, verso l’abitato di Zaberniza.

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:





Campagne nei dintorni di Stridone, verso l’abitato di Zaberniza. (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj, Vecchio casolare.

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Vecchio casolare a Stridone. (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj, Campi.

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:



Campi attorno a Stridone. (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj, 1976. Contadini sulla strada di casa

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone – Contadini sulla strada di casa, 1976. (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj, anni ’70

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone – T’amo, pio bove! Anni ’70 (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Pizzi (Pici), presso Stridone / Sdregna / Zrenj, in primavera

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Pizzi (Pici), presso Stridone (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj – Trebbiatura, anni ’70

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone / Zrenj, giorno di trebbiatura, anni ’70(Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj – Fantasmi

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone / Zrenj, fantasmi(Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj – sagra di San Bartolomeo, 1978

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:






Stridone / Zrenj, ballo all’aperto a Stridone per la sagra di San Bartolomeo. (1978)(Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.S

Stridone / Sdregna / Zrenj – tipica pergola di casa rurale

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone / Zrenj, tipica pergola di casa rurale. (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.S

Stridone / Sdregna / Zrenj – 1978

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:



Stridone / Zrenj, 1978. (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.S

Stridone / Sdregna / Zrenj – da nord, anni ’70

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone / Zrenj, arrivo da nord, anni ’70.

(Foto: Sergio Sergas)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Sergio Sergas: Fotografo e videoamatore classe 1947, da cinquant’anni documenta la città di Trieste e il Territorio, con una particolare attenzione alle tradizioni delle popolazioni istriane. Suoi più di 1500 video, pubblicati su You Tube e Fb.

Stridone / Sdregna / Zrenj – anni ’70

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone / Zrenj, anni ’70.(Foto: Sergio Sergas)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Sergio Sergas: Fotografo e videoamatore classe 1947, da cinquant’anni documenta la città di Trieste e il Territorio, con una particolare attenzione alle tradizioni delle popolazioni istriane. Suoi più di 1500 video, pubblicati su You Tube e Fb.

Stridone / Sdregna / Zrenj – anni ’70

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:




Stridone / Zrenj, anno 1976, Struttura usata per immobilizzare i buoi durante la ferratura.

(Foto: Sergio Sergas)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Sergio Sergas: Fotografo e videoamatore classe 1947, da cinquant’anni documenta la città di Trieste e il Territorio, con una particolare attenzione alle tradizioni delle popolazioni istriane. Suoi più di 1500 video, pubblicati su You Tube e Fb.

Stridone / Sdregna / Zrenj – anni ’70

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:

Stridone / Zrenj, anni ’70, verso la chiesa. 

(Foto: Sergio Sergas)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Sergio Sergas: Fotografo e videoamatore classe 1947, da cinquant’anni documenta la città di Trieste e il Territorio, con una particolare attenzione alle tradizioni delle popolazioni istriane. Suoi più di 1500 video, pubblicati su You Tube e Fb.

Rovigno / Rovinj

Per iscriversi al Gruppo Fb cliccate sull’immagine sottostante:

Rovigno / Rovinj. Foto di Sandro Alfa.

Rovigno è una città dell’Istria sud-occidentale, in Croazia, che conta 14.300 abitanti. Ha origini pre-romane ed ebbe un notevole sviluppo sotto il dominio romano, quando il suo nome era Arupinum o Mons Rubineus e successivamente anche Ruginium e Ruvinium.

Sotto il dominio della Serenissima Repubblica di Venezia vide il suo massimo splendore. Dopo la caduta di quest’ultima e la parentesi napoleonica, passò all’Impero austro-ungarico, fino alla fine della Prima guerra mondiale.
Con il Trattato di Parigi del 1947 fu ceduta alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.
In origine la penisola su cui sorge il centro cittadino era un’isola, separata dalla terraferma da un canale e cinta da una spessa muraglia e da torrioni: a ponente vi era la porta di san Damiano con il relativo torrione (ora la Torre dell’Orologio), a levante la porta di Valdibora con il suo torrione (divenuta nel XVIII secolo casa di proprietà della famiglia Bognolo) e nel mezzo il famoso Portone del Ponte, munito di ponte levatoio, sul quale campeggiava una lapide con la scritta “Lo Reposso dei Deserti”. Tale porta fu demolita ed il canale interrato nel 1763, per espandere l’antico abitato.

Oggi Rovigno è un comune a statuto bilingue, le lingue ufficiali sono il croato e l’italiano. Rovigno è abitata prevalentemente da croati ma vi risiede anche una forte minoranza italiana di circa 1.650 persone riunite nella locale Comunità degli Italiani di Rovigno. La Comunità conta circa 2.401 soci con diritto di voto; il presidente è Marino Budicin che è anche Vicesindaco di Rovigno. Altri gruppi etnici sono costituiti da serbi, bosniaci, sloveni e albanesi.
In città è ancora usato da taluni il tipico dialetto istrioto nella sua variante rovignese (ruvigniz nell’idioma locale): questa è una parlata romanza del gruppo italico, autoctona di queste terre d’Istria.


Attrazioni turistiche:

Arco dei Balbi, costruito nel 1680 è l’antica porta della città fatta costruire dal podestà Daniele Balbi, una lastra sull’arco stesso lo ricorda.

Chiesa di Sant’Eufemia, costruita nel 1736 utilizzando materiale proveniente da due antichi edifici preesistenti: sul fondo della navata laterale destra si trova la statuetta di Sant’Eufemia mentre il suo sarcofago, risalente al VI secolo, è collocato alle spalle dell’altare maggiore.

Convento Francescano (1702). Capolavoro barocco. È annessa al convento una biblioteca contenente circa 12.000 volumi antichi e pregiati. Contiene inoltre circa 250 opere d’arte sacra di importante rilevanza storica.

Chiesetta di Santa Croce (1592), suggestiva, edificata sulla scogliera sopra la quale è possibile ancora ammirare il cippo marmoreo posato a perenne memoria dell’approdo dell’arca marmorea contenente le spoglie mortali di Eufemia di Calcedonia.

Chiesa di San Tommaso Apostolo (XIV secolo), meraviglioso esempio di architettura medievale.

Battistero della Santissima Trinità, collocata in Piazza del Laco, è la più antica chiesa cittadina; di stile romanico ha pianta ettagonale.

Palazzo Comunale, le cui fondamenta risalgono al 1308.

Torre dell’orologio (XII secolo), per un periodo fu adibita a prigione, ora è uno dei simboli cittadini.

Teatro Gandusio, costruito per volere e su progetto di Nicolò Califfi, sindaco di Rovigno nel 1854. Splendido esempio architettonico, porta il nome di Antonio Gandusio, uno dei più famosi e brillanti attori del teatro novecentesco italiano, originario proprio di Rovigno.

Pinacoteca, è una piccola mostra permanente che espone principalmente quadri di origine veneta (XVIII secolo).

Parco nazionale di Punta Corrente.

Canale di Leme.

Chiesa di San Tommaso (VIII-IX secolo), si trova a circa 5 km da Rovigno. Considerata uno splendido esempio dell’architettura sacra risalente al periodo carolingio istriano.

Moncodogno: sito preistorico della media età del bronzo (1800-1200 a.C.).

Monsego: sito sepolcrale con tumuli di pietra.

Villa romana di Cala Cisterna risalente ad un periodo oscillante tra il II e il IV secolo d.C.

Acquario.

Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, Istituzione del Consiglio d’Europa.

Fonte: Wikipedia.

Fiume / Rijeka: Palazzo della società di navigazione “Adria”

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:

Fiume / Rijeka: il Palazzo della società ungherese di navigazione “Adria” (attuale Jadrolinija). Post e foto di Enrico de Cristofaro.

Progettato in stile storicistico nel 1895 dagli architetti Francesco Mattiassi e Giacomo Zammattio, con la sua mole domina il porto della città. Un ruolo importante lo svolse il podestà italiano Giovanni Ciotta, già promotore di importanti opere per la modernizzare di Fiume, quali la rete fognaria, lo stadio, il palazzo del Governo, alcune scuole e diversi edifici pubblici.

Caresana / Mackolje

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi

Caresana / Mackolje. Foto Sandro Alfa

Caresana (Mackolje in sloveno) è una frazione del comune di San Dorligo della Valle (TS), in Friuli-Venezia Giulia che si affaccia sulla vallata dell’Ospo. Gli abitanti, in gran parte di madrelingua slovena, sono circa 300.

Austro-ungarica fino al 1918, con il trattato di Rapallo del novembre 1920, Caresana passò sotto il controllo dell’Italia. Al termine della seconda guerra mondiale la frazione si ritrovò nella Zona A del Territorio Libero di Trieste (TLT) e venne annessa all’Italia nel 1954 in seguito al Memorandum di Londra.

Stridone / Sdregna / Zrenj – anni ’70

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:



Stridone / Zrenj, anni ’70. (Foto: Sergio Sergas)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone, a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Sergio Sergas: Fotografo e videoamatore classe 1947, da cinquant’anni documenta la città di Trieste e il Territorio, con una particolare attenzione alle tradizioni delle popolazioni istriane. Suoi più di 1500 video, pubblicati su You Tube e Fb.

Grotta Azzurra – Zidaričeva pejca

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi

Grotta Azzurra / Zidaričeva pejca Numero catasto: 34 Numero catasto locale: 257VG

Caratteristiche: sviluppo planimetrico 235 m.; profondità 45,8 m.; dislivello totale 45,8 m.; quota fondo 208,2 m.; numero totale ingressi 2.

La Grotta Azzurra, Zidaričeva pejca in sloveno, si trova a Samatorza, nel Comune di Sgonico ed è una delle più note del Carso Triestino, sia per la facilità di accesso e per la notevole estensione, sia per l’interesse archeologico che riveste.

Le sue coordinate chilometriche sono 2419288 Est, 5067427 Nord.

Google Maps – Grotta Azzurra

Il nome, assegnatole dal dott. Marchesetti, non trova fondamento in una particolare colorazione, ma nel fatto che dal fondo della sala si scorge un lembo di cielo e il debole riverbero azzurrognolo della luce diurna rischiara la caverna di fondo.

Grotta Azzurra di Samatorza

Marchesetti rinvenne in questa grotta vari manufatti in osso. Superato il bel portale d’ingresso e seguendo un sinuoso sentiero che si snoda lungo il pendio detritico, si raggiunge dopo un centinaio di metri la base pianeggiante della sala principale. Da qui, sulla sinistra si prosegue per una sessantina di metri lungo una galleria che va progressivamente restringendosi fino ad incontrare un deposito calcitico che impedisce ogni ulteriore prosecuzione. Già in epoca preistorica l’uomo si inoltrò fin nella parte più interna della cavità e forse vi abitò saltuariamente, anche se mancano prove sicure in proposito.

Una numerosa comunità soggiornò invece per lunghissimo tempo nella dolina antistante la grotta e nell’atrio di questa, dando luogo all’accumulo di un potente deposito, spesso alcuni metri, nel quale vi sono abbondanti resti di ogni periodo. In un profondo scavo eseguito dal Radmilli, a ridosso della parete destra dell’ingresso, è stato raggiunto un livello contenente moltissimi oggetti di selce lavorata, di piccole dimensioni e di fattura particolare: si tratta di un’industria mesolitica che in questa grotta è stata per la prima volta accertata nell’ambito del Carso. Lo stesso livello è stato in seguito raggiunto da scavi sistematici effettuati in altre grotte carsiche. Nelle argille della zona più profonda della grotta, invece, deve giacere una grande quantità di ossa di animali, probabilmente trascinate dalle acque assorbite un tempo dalla caverna. Il gen. Lomi rinvenne, con qualche limitato assaggio, molti resti di Ursus spelaeus e di altri animali pleistocenici assieme ad un dente umano. Durante la prima guerra mondiale gli Austriaci eseguirono nella cavità notevoli lavori di adattamento, dei quali restano tutt’oggi evidenti tracce. Nella dolina ed all’imbocco sorsero baraccamenti per la truppa, lungo la china detritica venne tracciato un comodo sentiero rialzato, a tornanti, che raggiungeva la parte pianeggiante, mentre con scivoli appositamente costruiti si convogliò l’acqua di stillicidio in due capaci vasche di cemento. Com’era normale precauzione per le grotte di guerra, si scavò anche una galleria artificiale che raggiungeva l’esterno con una scalinata, onde assicurare la possibilità di fuga in caso di blocco dell’ingresso principale. Va rilevato che in questa grotta sono presenti numerosissimi resti di Orotrechus muellerianus, uno dei più interessanti troglobi del Carso. L”ingresso del ramo sud-ovest, poco frequentato, si apre a breve distanza dalla vasca per la raccolta dell’acqua che si incontra a destra, alla fine della discesa; si sviluppa sempre molto basso, in direzione Sud e quindi Sud Ovest ed Ovest. Il fondo, piano ed argilloso, non presenta possibilità di prosecuzione se si eccettua uno sprofondamento alla fine del ramo che parrebbe raccogliere le acque di stillicidio.

Nel 1895 Carlo de Marchesetti pubblica a pag. 249 degli Atti del museo civico di storia naturale di Trieste il seguente articolo:

” Già da parecchi anni questa caverna aveva richiamato la mia attenzione per la sua bellezza e vastità, non meno che per le eccellenti condizioni, ch’essa doveva offrire all’uomo preistorico. Ed infatti la guida, che mi vi conduceva raccontavami che alcuni anni innanzi, scavando il proprietario nell’atrio della stessa, per trasportare la terra sull’attiguo campo, vi aveva trovato ossa e frammenti di pentole.
Già allora io l’ aveva segnata nella mia carta topografica delle caverne col nome di Grotta azzurra presentandoci essa la particolarità di lasciar scorgere attraverso l’apertura, allorché si giunge al suo fondo, un lembo di cielo di effetto veramente magnifico. Occupato però con altri lavori, non mi fu possibile di dedicarmi tosto all’esplorazione della stessa, e fui perciò molto lieto, allorché nella scorsa primavera alcuni giovani volonterosi, i signori Rodolfo e Camillo Seemann ed il signor Americo Hoffmann, si offersero di praticarvi degli scavi. In loro compagnia o solo mi recai più volte alla caverna e sebbene l’investigazioni non possano dirsi del tutto ultimate, restando da esplorare principalmente la parte interna, che forse ci rivelerà ancora l’esistenza di animali diluviali, procurerò di dare una breve descrizione dei resultati ottenuti, porgendo in pari tempo le più sentite grazie ai sullodati signori per le loro zelanti prestazioni. La caverna in discorso giace tra Nabresina ed il villaggio di Samatorza alle falde di una piccola collina all’altezza di circa 270 m. sul livello del mare. Essa trovasi al fondo di una vallecola, chiamata dai paesani Lescouza Dolina, che apresi in direzione di S. S. E, nel calcare cretaceo radialitico, formante l’ossatura della circostante regione. Il suo ingresso ci presenta una bella volta alta circa 6 m. e larga 25, che mette in un vestibolo quasi piano della superficie di circa 300 m. q. Questo era il tratto ove di preferenza soggiornavano i nostri trogloditi ed ove gli scavi vennero più estesamente praticati. Il vestibolo va a poco a poco restringendosi ed abbassandosi e si riduce a soli 10’5 m. alla sua estremità interna, ov’è tutto ingombro di sassi ammonticchiati, sicché non vi restò che uno stretto passaggio per penetrare nell’interno della caverna. Quivi comincia il tratto declive che misura in lunghezza quasi 100 m. discendendo per circa 35 fino alla parte più depressa, che è nuovamente piana. Esso mantiene sempre la direzione verso S, S. E. e presenta poche sinuosità, conservando una larghezza, che varia da 27 a 39 m. Il suolo è parte ingombro da pietre mobili, parte formato da roccie con incrostazioni stalagmitiche, mentre la volta che va gradatamente elevandosi fino a 12 m. è quasi totalmente priva di stalattiti. A 60 m. della sua lunghezza presso alla parete sinistra, evvi un largo bacino d’ acqua sormontato da un massiccio stalattite pendente dall’alto a guisa di enorme ombrello chiuso, mentre un po’ più basso, ma dalla parte opposta, le gocce cadendo sur uno strato di sabbia, vi hanno prodotto una successione di piccole ampolle, che ricordano, se anche in dimensioni ridotte, la famosa Grotta delle Fontane di S. Canziano.

Segue quindi un tratto piano di 40 m. di lunghezza, alla cui estremità la caverna va rapidamente restringendosi fino a 18 m., mettendo in un canale egualmente piano, lungo 38 m. e largo da 13 a 15, che presenta verso la metà a sinistra un allargamento a forma di nicchia. La sua altezza è di appena 2 – 4 m. ed è tutto occupato di terriccio. Chiude la caverna un breve tratto ascendente di 18 m., tutto ingombro di rocce e formazioni stalattitiche, che va restringendosi in ogni sua dimensione e finisce con due angusti cunicoli, ove la strettezza del passaggio non permette un’ ulteriore esplorazione.

Come in buon numero delle nostre caverne, anche in questa la parte che a preferenza veniva abitata era il vestibolo, potendovi penetrare liberamente la luce. Senza dubbio anche all’esterno della caverna, ove le rupi sporgono notevolmente ed offrono un eccellente ricovero, si avrebbero trovati resti dell’uomo, se il proprietario non vi avesse già anteriormente levato il terriccio, gettandovi un’ enorme quantità di sassi. L’ interno dell’antro non serviva probabilmente che di rifugio temporaneo, allorché i rigori del verno si facevano sentire troppo aspri nella parte anteriore. E difatti gli assaggi praticativi ci diedero solamente degli strati sottili di cenere con pochi cocci e resti d’ animali, laddove nel vestibolo il deposito di cenere oltrepassava un metro di spessore con copiosi avanzi dell’attività umana.
Lo strato antropozoico era coperto da un metro a un metro e mezzo di terriccio, salvo nei tratti ove il proprietario lo aveva, come si disse, già anteriormente levato, sostituendolo coi sassi del suo campo. Sebbene diffuso per tutta l’estensione del vestibolo, non era però dovunque uniforme, presentando differenze nello spessore e constando talora di una serie di straterelli sovrapposti, interrotti da terriccio. Più compatti e più grossi erano nella parte centrale, assottigliandosi sempre più che si procedeva verso le pareti. Ma se in prossimità di quest’ultime minore era l’agglomeramento delle ceneri, più copiosi si presentavano gli oggetti, che senza dubbio venivano gettati colà i rifiuti de’ pasti de’ nostri trogloditi, affinchè non ingombrassero la parte centrale del vestibolo. Al pari che in tutte le altre caverne abitate del nostro Carso, anche in questa la maggior parte dei resti è rappresentata dalle stoviglie, rispettivamente dai loro frammenti. Ve ne sono di grossolane e di dimensioni notevoli, come pure di pasta relativamente fina ed appartenenti a vasi minuscoli. Lavorate a mano furono cotte a fuoco aperto, sicché ci presentano nell’impasto od almeno nella parte centrale, un colorito nero. All’argilla fu costantemente mescolata sabbia calcare, al qual uopo avranno servilo per lo più stalattiti triturate, come accennano i cristalli trasparenti di calcite.

I vasi maggiori a pareti molto grosse avevano per lo più forma ventricosa di dogli ed andavano sforniti di qualsiasi ornamento, se si eccettuino dei cordoni rilevati, decorazione che in questa caverna è la più frequente, anche nelle pentole di minori dimensioni. Interessante riesce il rinvenimento di frammenti di un grande doglio a zone nere e rosse con cordoni interposti, che sembra il prototipo degli ossuari zonati, tanto frequenti nella necropoli di S. Lucia.

Anche le pentole minori erano solitamente più o meno panciute ed avevano sempre fondi piani. I loro labbri erano per la maggior parte diritti, più raramente ripiegati all’infuori. Alcuni orli presentano il labbro ingrossato e superiormente pianeggiante.

I manichi raccolti sono abbastanza numerosi, sebbene non offrano molte varietà. Più frequenti sono le piccole anse cana- licolate sia orizzontali che verticali. Le minori avranno proba- bilmente servito ad appendere il vaso mercè di una cordicella. Meritano speciale menzione alcune anse particolari nelle quali la branca superiore che va gradatamente assottigliandosi, decorre orizzontalmente o si rivolge alquanto all’insù, per poi ripiegarsi bruscamente ad angolo retto ed inserirsi inferiormente con una curva, ove si allarga nuovamente. Questa forma d’ ansa, che si trova assai comune nei castellieri e nelle grotte dell’Istria media ed australe, è piuttosto rara nei depositi neolitici e dell’ epoca del bronzo dei dintorni di Trieste e del Goriziano, ove viene sostituita per lo più dall’ansa auricolata. Né vi mancano stoviglie che presso l’orlo superiore vanno fornite di buchi. Una ciotoletta possedè un manico rilevato, un’ altra, di color nero molto lucido, mostra l’ inserzione dello stesso immediatamente alla base.

Le decorazioni non ci offrono grandi varietà: il più delle volte il figulo si accontentò di passare colla stecca sulla superficie del vaso, producendovi una lisciatura più o meno riuscita. Altre volte vi impresse piccoli solchi o fascetti di linee irregolari, talora le dispose con cert’ordine a determinate distanze, in direzioni diverse, tracciandovi triangoli, linee spezzate, reticolati, ecc. Vi aggiunse tal fiata quell’ornamento caratteristico dell’epoca della pietra e del bronzo, cioè l’impressione digitale, che non manca in alcuna delle nostre grotte né in alcun castelliere, e trovasi diffuso dalla Spagna fino nelle regioni più orientali della Russia e dell’Asia minore. Invece del polpastrello si servì in alcuni casi dell’unghia oppure anche di un pezzetto di legno.

D’argilla sono pure due fusajuole biconiche senza alcuna decorazione, di cui una molto grossa e pesante. A completamento delle stoviglie ritrovate, noterò ancora la presenza di alcune anfore romane di creta rossa purgatissima e di piena cottura, negli strati superiori, d’onde s’ebbero pure cocci di vasi, che sebbene di pasta oscura con granuli di calcite, ci si dimostrano di epoca posteriore per esser lavorati al tornio. Se anche la caverna di Samatorza non può stare a pari con quelle di Gabrovizza e di S. Canziano per la ricchezza e la varietà di selci lavorate, tuttavia pur essa ci offrì non ispregevole contributo di oggetti litici, tanto più ove si rifletta alla scarsità generale di questi manufatti nelle nostre caverne, che si spiega benissimo colla rarità della piromaca nei calcari eocenici e cretacei del nostro Carso,- ove si eccettuino gli arnioni silicei del calcare bituminoso, che del resto non fornivano che un materiale assai scadente alla fabbricazione di utensili. Oltre ad alcuni nuclei di selce, noterò parecchi coltellini, tra i quali uno di selce grigia della lunghezza di 112 mm. e due altri di selce bionda di 105 rispettivamente 90 mm. Vi sono pure alcune cuspidi e raschiatoi egregiamente lavorati.

All’incontro copiosissime come in tutti i nostri depositi neolitici sia all’aperto che sotterra, vi sono le coti d’arenaria di forme varie e spesso portanti tracce evidenti di lunga lavorazione. Mancando il nostro Carso di giacimenti d’ arenaria, esse vi furono trasportate dalla sottostante costiera di Contovello- Aurisina, ove affiorano strati arenosi, ed ove nei ciottoli della riva si offriva ai nostri trogloditi un materiale eccellente. Oltre alle coti si raccolsero alcuni pestelli le cui superfici consumate ci rivelano il loro lungo uso. E dalla spiaggia venivano pure sovente portati alla caverna piccoli ciottoli calcari arrotondati, che non saprei a quale scopo servissero, ove non si voglia pensare a qualche giuoco con cui i nostri bisavoli avranno forse scacciato la noia. È rimarchevole pure un ciottolo allungato per esser levigatissimo assomigliando ad un’ ascia.

Numerosi sono pure gl’istrumenti di osso, per i quali gli ammali di cui pascevansi, fornivano senza alcuna speciale fatica la materia prima più acconcia. Essi vengono in certa qual guisa a surrogare i manufatti di selce, prestandosi benissimo all’uopo. Per lo più ci si accontentava di scheggiare solamente le ossa, producendovi per tal modo spigoli acuti taglienti o punte acuminate. Le scheggiature non sono già accidentali per trarne il midollo, ma si dimostrano intenzionali per foggiare istrumenti. E difatti parecchie di queste ossa presentano tracce indubbie di esser state adoperate. Quali fossero i molteplici usi cui esse servivano, non è sempre possibile determinare nel caso concreto, ma è probabile che oltreché quali armi offensive e difensive, vi si traessero i differenti utensili dell’uso domestico. Appresso a quelle semplicemente scheggiate, vi sono alcune accuratamente lisciate, sia in tutta la loro estensione, sia soltanto verso l’estremità.

Prescelte erano specialmente le corna di cervo, delle quali si raccolsero molti pezzi lavorati, sia lisciati che tagliati. Di osso si raccolse inoltre un pettine spezzato, però nello strato superiore, identico a quelli che ci vennero forniti in copia dagli scavi nella caverna di S. Canziano e che sono da riferirsi ad un’epoca romana tarda, al tempo cioè della trasmigrazione de’ popoli.

Ma oltre alle ossa, che ci dimostrano di esser state lavorate, vi sono ed in maggior copia quelle che ci rappresentano solamente i rifiuti de’ pasti dei nostri trogloditi. Esse sono per lo più spezzate per estrarne il midollo ed appaiono spesso più o meno carbonizzate o ricoperte da incrostazioni di cenere raggrumatasi loro d’intorno. Anche quivi l’animale più frequente di cui si cibavano gli abitatori della caverna era la capra, meno comune la pecora. Si raccolsero pure resti di bue e di maiale, se anche in piccolo numero. Vi manca all’incontro il cane. Tra gli animali selvatici primeggia il cervo (C. Elaphus), del quale si trovarono corna colossali. Né vi fa difetto il capriolo, che al pari del precedente rinviensi, del resto, in quasi tutte le altre grotte del Carso. Del lepre non raccolsi che un’ unica mascella. Non erano però soli i mammiferi, ai quali il troglodita domandava il suo sostentamento, ma egli scendeva spesso al mare distante poco più d’un’ora a farvi raccolta dei molluschi, che popolavano i bassofondi della spiaggia e dei quali, al pari de’ suoi confratelli di altre caverne,- era ghiottissimo. Ed egli arrecava alla sua dimora grandi quantità di Monodonta tuberculata, alle volte frammischiata alla M. articulata, né sdegnava le umili patelle (P. aspera, scutellaris e tarentina) e le cozze (Mytilus galloprovincialis). Aveva pure una speciale predilezione per le ostriche, le cui valve lisciate ed arrotondate, gli servivano poscia quali utensili. Molto più raramente raccoglieva gaideri (Spondylus gaederopus).

Noi troviamo quindi anche in questa caverna esclusivamente molluschi che vivono alla sponda od a poca profondità. In generale i nostri cavernicoli dell’epoca neolitica non sembrano essersi occupati più di tanto della pesca, mancando di solito qualunque traccia di pesce nei loro depositi. Riesce perciò interessante il rinvenimento dell’aculeo caudale di una Raja in questa grotta, se anche non può disconoscersi che esso provenga forse da un animale gettato casualmente alla riva. Raccolsi inoltre una vertebra di pesce di mediocre grandezza, che non mi riesci ancora di determinare.

Abbiamo adunque nella caverna di Samatorza un’altra stazione, che per lungo tempo servì di dimora all’uomo neolitico. La mancanza di qualsiasi traccia di metallo, ci apprende ch’essa non venne più abitata nell’epoche posteriori, seppure talora deve aver servito da rifugio temporaneo, come ci dimostra la presenza dell’anfore romane e del frammento di pettine. “

(Testi dal Catasto Grotte FVG; La Grotta Azzurra di Samatorza, «Atti del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste»; Carlo Marchesetti e i Castellieri – 1903/2003 Editreg 2005; Atti del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste Vol.IX, 1895)

Il Carso

Per iscrivervi al Gruppo Fb. cliccate sull’immagine sottostante:

Gruppo Facebook Trieste di ieri e di oggi

Il Carso è un paese di calcari e ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorti, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi. Lunghe ore di calcare e di ginepri. L’erba è setolosa. Bora. Sole
(“Il mio Carso” di S. Slataper)

 


Il Carso (noto anche come altopiano Carsico o Carsia, Iulia Carsa in latino, Kras in sloveno e croato, Cjars in friulano, Karst in tedesco) è una regione storica, un altopiano roccioso calcareo che si estende a cavallo tra Venezia Giulia (provincia di Gorizia e Trieste), Slovenia e Croazia, noto storicamente per essere stato teatro di violente battaglie durante la prima guerra mondiale, tra le truppe italiane e quelle austro-ungariche.
Dal nome della regione geografica del Carso di Trieste, oggetto dei primi studi e presa come riferimento, nota anche come “Carso Classico”, è derivato il termine carsismo. Questo toponimo a sua volta deriva dalla radice “kar” o “karra”, di origine paleoindoeuropea con significato di roccia, pietra. Stessa radice hanno i toponimi Carnia, Carinzia, Carnaro e Carniola.


Il Carso triestino è formato prevalentemente da rocce calcaree, costituite da carbonato di calcio (un composto chimico quasi insolubile), che in acqua acidula si trasforma in bicarbonato (molto solubile). Queste rocce si sono formate per l’accumulo, in milioni di anni, di fanghi e resti calcarei di miliardi di organismi marini dalle dimensioni più varie.
La zona in cui si formerà il Carso, milioni di anni fa era un mare poco profondo, caratterizzata da un clima tropicale molto diverso da quello attuale, abitata prevalentemente da organismi con guscio e scheletro calcareo.

Si estende a sud-est delle Prealpi Giulie, (zona del Collio), giunge fino al mare Adriatico e prosegue poi in Slovenia occidentale e Istria settentrionale, fino al punto di congiunzione con il massiccio delle Alpi Bebie (Velebit) all’estremo nord-ovest della Croazia. L’altopiano si estende su una anticlinale parzialmente erosa.

Secondo la Partizione delle Alpi del 1926 il Carso è considerato facente parte del sistema alpino ed è visto come una delle 26 sezioni delle Alpi, e precisamente la ventiduesima. Secondo questo criterio, si suddivide Piccolo Carso (gruppo 22a) e Carso Istriano (gruppo 22b).
Secondo la SOIUSA il Carso non fa parte delle Alpi, ma appartiene al sistema delle Alpi Dinariche, seguendo la letteratura geografica slovena, che lo suddivide nel seguente modoː Montagne dell’Istria e del Carso (sigla A1); Gruppo della Selva di Tarnova (sigla B1); Gruppo del Monte Nevoso-Risnjak (sigla B2); Largo altopiano della Carniola-interna e della Bassa Carniola (sigla B3).
Secondo altri criteri, può essere suddiviso in Carso Triestino, Carso goriziano, Carso sloveno e Carso istriano (in talune suddivisioni si espande anche più a sud con il Carso dalmata e il Carso bosniaco).

Aree della superficie terrestre ricoperte da formazioni di rocce calcaree.
Le rocce calcaree sono solubili dagli agenti atmosferici, in particolare dall’acido carbonico disciolto nelle acque, e vengono quindi da questi modellate nel tempo in varie forme, causando il fenomeno del carsismo. Nel mondo solo il 15% delle aree con affioramenti carbonatici presentano i caratteristici fenomeni carsici. Uno degli aspetti più rilevanti sono le doline.

Nei secoli scorsi le condizioni di vita furono sempre dure sia per gli inverni rigidi che per le estati estremamente secche che danneggiavano vigne e oliveti. La prolungata siccità verificatasi nel 1782 provocò una vera e propria carestia che ridusse alla miseria più di 1000 famiglie e i cui effetti si prolungarono fino ai primi decenni dell’ Ottocento quando le autorità furono costrette a importare grano dall’Ucraina distribuendolo alle famiglie che avevano perduto tutti i raccolti.
Con la successiva siccità degli anni 1841-42 vi fu un alta mortalità per malnutrizione e malattie e se i paesani di Prosecco, Santa Croce e Opicina si mantenevano con i loro mestieri di scalpellini, muratori e carrettieri quelli di Trebiciano, Padriciano, Gropada e Basovizza con le loro terre pietrose e poco fertili sopravvivevano con i proventi del latte e delle poche verdure che le donne vendevano in città.
Solo il lavoro delle attività industriali di Trieste, l’istituzione della Casa dei poveri e l’affidamento stipendiato delle balie soccorsero i più poveri e chi rimaneva in Carso si arrangiava a frantumare le pietre per venderlo agli appaltatori delle strade. Sul Carso triestino si trovano ancora degli stagni e delle cisterne, che per secoli hanno rappresentato la principale fonte d’acqua per gli abitanti e per gli animali.
A Opicina la più importante riserva d’acqua era rappresentata dalla cisterna di Ovçjak o cisterna romana, che si trova in fondo a una dolina nei pressi della centrale elettrica di Opicina.
Le sue origini sono molto antiche, collegate perfino al primo nucleo abitativo di Opicina, ma la forma attuale risale al 1836, quando venne completamente ricostruita dalla comunità di Opicina, data scolpita sul muretto della scala. Oltre a essere utilizzata come fonte d’acqua per l’abitato, fu anche una “jazera” e infine utilizzata come cisterna d’acqua per rifornire le locomotive a vapore della vicina ferrovia.
La larga carrareccia, che scende a spirale lungo i versanti della dolina, serviva proprio per il transito dei carri che dovevano prelevare l’acqua per le locomotive della vicina stazione ferroviaria.
Ha una forma circolare, una profondità di 3 m e un diametro di 16 (la più grande cisterna del Carso triestino) ed è circondata da un parapetto formato da grossi conci di pietra. Ha rappresentato la principale riserva d’acqua potabile di tutta l’area fino al 1908, quando Opicina fu allacciata all’acquedotto di Aurisina.

Aurisina – Nabrežina
Già nel 1300 il paese carsico era chiamato Lebrosina, Lebresina, negli anni seguono si trovano altre varianti, verso il 1600 Nebresin, Nibresina fino ad arrivare, nel 1800 Nabrežina che tradotto significa sopra il costone, anche  “nabrežje” che significa bacino, limite di un corso d’ acqua.
“Aurisina” (con le varianti Aurisin, Aurisyns, Aurexino e successivamente Aurisino e Auresina) invece era il nome della zona costiera con le sorgenti d’acqua che dal 1853 alimentavano l’acquedotto costruito per i bisogni della Ferrovia Meridionale. Solo nel 1923 il paese carsico è stato ribattezzato “Aurisina”.
Nel 1853 era stato approvato il progetto per la costruzione dell’acquedotto che utilizzava le sorgenti di Aurisina per i bisogni della Ferrovia Meridionale, del porto e della città de Trieste. Oggi le sorgenti di Aurisina sono spesso chiamate “Filtri di Santa Croce”.

Le cave di Aurisina presentano una notevole varietà di materiali che hanno tutti la stessa definzione: “brecciola calcarea” di origine organogena, formatisi nel Cretacico superio¬re. E’ durante questo periodo che iniziò il rapido sviluppo delle Angiosperme. Le ammoniti svilupparono forme a spirale svolta o a guscio quasi completamente diritto (eteromorfe) e nei mari poco profondi si diversificarono le rudiste, un particolare gruppo di lamellibranchi nei quali una valva assumeva forma conica rovesciata, fissata al substrato, mentre l’altra formava una sorta di opercolo.
La fine del Cretacico superiore è caratterizzata da un’importante estinzione di massa, avvenuta 65 milioni di anni fa, famosa perché associata all’estinzione dei dinosauri.
Dal punto di vista chimico, la base di tutti i marmi di Aurisina è il carbonato di calcio, mentre il carbonato di magnesio ed il residuo insolubile, quando ci sono, si trovano soltanto in traccia. Dal punto di vista dell’aspetto, i vari tipi di pietra di Aurisina si distinguono per la pezzatura delle inclusioni di fossili che sono più o meno sminuzzati; solo l’ “Aurisina fiorita” si differenzia dalle altre, per il fatto che i fossili sono di notevoli dimensioni.
Il Carso triestino è formato prevalentemente da rocce calcaree, costituite da carbonato di calcio (un composto chimico quasi insolubile), che in acqua acidula si trasforma in bicarbonato (molto solubile). Queste rocce si sono formate per l’accumulo, in milioni di anni, di fanghi e resti calcarei di miliardi di organismi marini dalle dimensioni più varie.
La zona in cui si formerà il Carso, milioni di anni fa era un mare poco profondo, caratterizzata da un clima tropicale molto diverso da quello attuale, abitata prevalentemente da organismi con guscio e scheletro calcareo.
Già all’epoca romana, dalla fine del I secolo avanti Cristo, le cave di pietra di Aurisina fornivano materiale da costruzione e decoro per Aquileia. Le pietre estratte venivano calate per mezzo di giganteschi scivoli, costituiti da lastre di piombo, lungo il ciglione carsico, e giungevano a destinazione via mare.
Ireneo della Croce scrive: “ […] non lungi dalle cave si vedono ancor oggi i vestigi di due strade, addimandate comunemente “Piombino”, perchè tutta coperte da lastre di piombo grosse, oltre due palmi dalla sommità del monte, sino alla riva del mare, servivano per trasportare le colonne ed altre machine levate dalle suddette cave e caricarle nelle navi”.



Ceroglie (Cerovlje)

Ceroglie (in sloveno Cerovlje, circa 150 abitanti), villaggio che aveva i toponimi Ceroglan (1305), Zirolach (1494), Cerole nel 1600, Ceroula, Ceroule e Cereule nel 1700, poi Zereule: forse il nome si può far risalire al latino arcaico cerrus o quercus cerris, la quercia che un tempo abbondava nella zona.
Centro agricolo posto nel comune di Duino-Aurisina, è abitato da una popolazione prevalentemente di lingua slovena. Posto ai piedi del Monte Ermada (da cui la denominazione “Ceroglie dell’Ermada”) è un tipico centro carsico costituito da un nucleo di costruzioni tipiche, affiancate ad edifici più recenti. Il toponimo deriverebbe dal latino Cerrus (quercia), albero che caratterizza i boschi circostanti.
Viene citato per la prima volta nel 1305 in un contratto di compravendita, ma l’esistenza di un castelliere nelle sue vicinanze fa presumere che l’area fosse abitata anche in epoca preistorica. Viene poi riportato sul libro paga di Duino col nome di Zivolach (cervo) nel 1494. La chiesetta dei santi Cirillo e Metodio venne consacrata nel 1988.
Il paesino venne profondamente danneggiato nel corso della prima guerra mondiale, stante la vicinanza con il fronte del monte Ermada. Già nell’estate del ’14 il Carso triestino ne subì le conseguenze: la popolazione civile dei villaggi della cintura carsica più prossimi al fronte – come Ceroglie e Malchina – dovette abbandonare le proprie case; furono approntate opere di difesa.
Il paese subì la devastazione il 16 agosto 1944 da parte delle truppe tedesche come rappresaglia all’azione dei partigiani della Brigata Trieste, i cui guastatori il 9 agosto fecero saltare il viadotto ferroviario presso Moschenizza. A Ceroglie, che contava circa quaranta case, fu distrutto quasi tutto il paese, tranne tre case.
Ceroglie (di 170 abitanti, 27 deportati e 20 partigiani, di cui 4 caduti).
Castelliere di Ceroglie
Scoperto dalla Commissione Grotte dell’Alpina delle Giulie nel 1964, risulta di piccole dimensioni, con una sola cinta della circonferenza di appena 70 metri, mancante in più punti: potrebbe rientrare nel gruppo dei castellieri che il Marchesetti considera vedette. Esso si trova infatti ubicato poco distante da quelli del Monte Ermada, su di una bassa collina isolata, a quota m. 215, un chilometro a nord-ovest della frazione di Ceroglie.
Gli scavi di assaggio praticati su un modesto ripiano, sul versante ovest, hanno portato al reperimento di pochi frammenti fittili, tra cui un’ansa angolare e l’orlo di un vaso decorato con incisioni triangolari piuttosto irregolari. C’è da tener presente che anche questo castelliere risulta molto rovinato dalle opere belliche.
_______
Castelliere di Ceroglie, aggiornamenti Stanko Flego – Lidia Rupel (I Castellieri della provincia di Trieste, 1993):
Un castelliere in discreto stato di conservazione si trova a ridosso del confine di stato sul M. Ostri vrh (214,5 m), a nord dell’abitato di Ceroglie. Vi si giunge per la strada che da Ceroglie porta al confine e che in passato collegava il paese con Medeazza. … possiamo visitare le macerie del muro di cinta che si conserva per circa 70 m di lunghezza ed è ancora ben conservato. Esso difendeva un castelliere di piccole dimensioni non riportato dal Marchesetti. Nella parte occidentale del sito si può distinguere un ripiano abitativo, ad est invece le strutture del castelliere risultano danneggiate da opere, eseguite durante la prima guerra mondiale. Dalla cima sono visibili altri tre abitati protostorici e precisamente a sud ovest i Castellieri del M. Ermada Superiore e Inferiore e a sud il Castelliere di Ceroglie (q. 173 m) -Na Vrtaci.
Il Castelliere di Ceroglie fu scoperto nel 1964 da S, Andreolotti). Egli effettuò assieme ad altri soci della Società Alpina delle Giulie un piccolo sondaggio nel lato meridionale del castelliere all’interno delle mura, rinvenendo alcuni frammenti ceramici databili al bronzo finale.


Il Carso è ricco di grotte di varie dimensioni, per cui nel territorio si sono sviluppate molte società speleologiche. Le più famose sono la Grotta dell’Orso, la grotta Gigante, la Grotta delle Torri di Slivia, la Grotta Azzurra, le grotte di San Canziano e le grotte di Postumia.

La grotta dell’Orso (Caverna di Gabrovizza), si trova sul Carso triestino, a circa mezzo chilometro da Gabrovizza, nel comune di Sgonico.

Ampia circa 175 metri e suddivisa in tre tronconi, rispettivamente di 50, 90 e 30 metri, con una larghezza massima di poco superiore ai 20 metri ed una profondità di 39 metri, per la sua conformazione è stata un rifugio ideale sia per animali, sia per gli uomini della preistoria. Nella parte iniziale della caverna sono stati rinvenuti resti di cibo e manufatti di vario genere, risalenti all’uomo neolitico, nella parte finale, interessata peraltro da piccoli crolli, sono emersi resti fossili di più di 23 specie di animali di epoche e climi differenti, tra cui l’Ursus spelaeus, il lupo, la volpe, la iena e il leone.

I primi scavi scientifici vennero eseguiti alla fine del 1800 dal Marchesetti, dal Neumann e dal Weithofer. I reperti si trovano nei musei di Vienna e di Trieste.

Scriveva il Marchesetti nel 1880:
” Dieci anni fa non solo nulla si conosceva ancora intorno all’esistenza dei nostri trogloditi, ma nessuno ancora aveva rivolta l‘attenzione alle mille caverne delle nostre montagne calcari, nessuno aveva pensato di frugare sotto la crosta stalagmitica, che nel corso de’ secoli si era rappresa al fondo degli antri, nessuno si era data la briga di rovistare gli strati poderosi di terriccio che vi si erano accumulati. Qualche esplorazione, perché probabilmente troppo superficiale, non aveva fornito alcun risultato, e da ciò si voleva negare presso di noi resistenza di un popolo di trogloditi, quantunque la regione eminentemente cavernosa vi si prestasse meglio di qualunque altra. Delle nostre caverne e de’ loro abitatori, mi limiterò qui a descrivere quella di Gabrovizza (la prima notizia su questa caverna e sui resti diluviali contenutivi, venne da me pubblicata nel 1885 negli Atti dell’Istituto geologico di Vienna), non lungi da Prosecco, che finora ci fornì maggior copia di oggetti sia dal lato paleontologico che preistorico e che merita perciò ne venga fatta speciale menzione. Fu in un’escursione intrapresa nel Marzo 1884, che, smuovendo un po’ il terriccio, ritrovai verso l’estremità interna della grotta alcuni cocci quasi a fior di terra, i quali mi determinarono a farvi ritorno per praticarvi un qualche assaggio più esteso. Quale non fu però la mia sorpresa, allorché scavati appena pochi centimetri, mi si presentò un bellissimo dente dell’orso delle caverne (Ursus Spelacus) e poco appresso un’intera mascella inferiore dello stesso animale!
L’animale di gran lunga più frequente nella caverna di Gabrovizza era l’orso speleo (Ursus spelaeus) avendovi raccolto ben 10 crani più o meno completi, 50 mascelle inferiori, 310 denti sparsi, oltre ad un’enorme quantità di altre ossa. Essi erano di tutte le dimensioni di tutte l’età, dagl’individui al cui paragone il nostro orso bruno appare un pigmeo, superando per mole l’orso polare, ai giovanissimi, cui stavano appena appena per spuntare i denti. I numerosi oggetti rinvenuti nella grotta giacevano sparsi ne’ vari strati senza alcun ordine, come non altrimenti era da attendersi di cose smarrite o gettate via. In generale più ricchi d’oggetti ed anzitutto di cocci e di resti d’animali erano i luoghi più vicini alle pareti, e specialmente una piccola insenatura, ove la caverna forma gomito, che sembra aver servito da mondezzaio.
Gli oggetti più interessanti sono senza dubbio i manufatti litici di cui questa caverna, a differenza della maggior parte delle altre del Carso, finora esplorate, si mostrò molto ricca. D’istrumenti in pietra si raccolsero ne’ nostri scavi: Coltelli, seghe, lesine, raschiatoi . . 124; Cuspidi 7; Schegge 24; Nuclei 5; Asce 2; Pestello di quarzite 1; Cote e lisciatoi d’arenaria …. 42.
In un’ epoca in cui mancava del tutto la conoscenza dei metalli e l‘uomo era costretto a plasmare in argilla gli utensili d’uso domestico, non è da stupirsi dell’enorme quantità di stoviglie rispettivamente dei cocci che ne risultarono, onde riboccano le nostre caverne ed i nostri castellieri. E sono appunto i cocci spesse volte gli unici avanzi che ci rivelano l’esistenza dell’uomo preistorico su qualche vetta denudata dei nostri monti od in qualche antro umido e di difficile accesso. Né la caverna di Gabrovizza vi fa eccezione: che abitata per lunghissimo tempo, vi si accumulò un’ingente quantità di cocci, che se anche non ci permettono che una parziale ricostruzione delle vecchie pentole, ci offrono tuttavia un materiale molto importante per giudicare dello sviluppo e della perfezione, cui giunse la ceramica durante il periodo neolitico. La decorazione più comune ed in pari tempo più semplice, consiste in un intreccio di linee senza alcun ordine, quasiché il figulo fosse passato con un mazzo di vimini sulla pasta ancor molle. Gli animali di cui più frequentemente si pascevano gli abitanti di questa caverna erano la capra e la pecora. Oltre a queste due specie trovansi rappresentati il capriolo ed il cighiale, il primo da molte corna e da qualche mascella ed il secondo da alcune zanne veramente colossali, che fanno presupporre animali di dimensioni considerevoli. Si rinvennero pure resti di lepre e di volpe, di quest’ultima una testa perfettamente intatta. Appresso alle ossa di vertebrati, rinvengonsi in gran copia molluschi marini, disseminati in tutti gli strati di cenere. Numerosissime sono specialmente le così dette naridole (Monodonta turbinata Born, meno frequente la Monodonta articulata Lam) delle quali contai più di mille esemplari. Quasi altrettanto copiose sono le pantalone (900 esemplari) appartenenti alle specie Patella scutellaris Blain. P. aspera Lam. e P. suhplana Pot. e Mich., più raramente alla P. tarentina Sal. Del pari frequenti (750 esemplari) sono le ostriche (Ostrea plicatida L., meno comune l‘O. Cyrnusi Payr., le valve delle quali trovaronsi di preferenza in uno strato intermedio ed in prossimità della parete della caverna, divenendo molto più rare verso il centro. Molte valve però portano tracce di lavorazione, avendo i margini arrotondati e la superficie esterna lisciata, sicché con molta probabilità avranno servito da cucchiai, o fors’anche quali istrumenti da taglio o per lo meno raschianti, come avviene ancor al presente presso molti popoli selvaggi. A quest’ultimo scopo veniva adoperata evidentemente la valva di un mitilo, che ha il margine affilato. Devo inoltre notare che queste specie non trovansi sparse equabilmente nella grotta, predominando in un luogo l’una, altrove l‘altra con esclusione quasi assoluta delle specie diverse. Gli altri molluschi non apparvero che in piccolo numero, cosi si ebbero 24 cozze (Mytilus galloprorincialis Lam.), 8 canestrelli (Peeten glaber L.), 12 campanari (Cerithium vulgatum Brug) e 3 piè d’asino (Pectunculus insubricus Broc). Per quanta attenzione vi facessi, non potei trovare alcun resto di pesci o di crostacei, come pure d’echinodermi, di cefalopodi, ecc. Del pari vi faceva difetto qualsiasi avanzo vegetale. Che la grotta abbia servito per lunghi secoli da dimora agli animali ed all’ uomo, chiaro emerge dallo spessore degli strati di cenere e dalla quantità delle ossa e degli oggetti rinvenutivi….”

La Grotta Gigante, costituita da rocce carbonatiche prevalentemente calcaree e in minor misura dolomitiche, venne esplorata per la prima volta, e soltanto parzialmente, nel 1840 dall’ingegnere Anton Friedrich Lindner al fine di trovare nuove risorse idriche per la città. Appena nel 1890 una nuova spedizione portò alla scoperta di due nuovi ingressi, uno dei quali si prestava alla costruzione di scalinate per le visite turistiche; fu così che tra il 1905 ed il 1908 si costruì il primo percorso, ancora oggi in parte utilizzato – venne aperta ufficialmente al turismo dal Club Touristi Triestini nel 1908. Fino al 1957 per l’illuminazione si utilizzavano lampade ad acetilene, sostituite poi dall’impianto elettrico. La sua principale caratteristica è quella di essere la grotta turistica con la sala naturale più grande al mondo: alta circa 100 metri, lunga 280 metri e larga 76 metri.
Nel corso di scavi archeologici, nella Grotta Gigante sono stati rinvenuti numerosi reperti risalenti a varie epoche: punte di freccia e raschietti in selce, resti umani datati al tardo Neolitico; reperti dell’Età del bronzo (un pugnale e vasellame); tre monete di epoca romana del primo secolo d.C. e vasellame medievale.
L’origine della grotta viene fatta risalire tra i 100 e i 20 milioni di anni fa (tra il Cretacico inferiore e l’Eocene superiore), per il lento accumulo di sedimenti carbonatici sui fondali di antichi mari caldi. Questi sedimenti erano rappresentati soprattutto da parti dure (conchiglie) di organismi morti, tra i quali microscopici coralli, crostacei e molluschi misti a fanghi carbonatici. I naturali processi di diagenesi hanno in seguito trasformato tali sedimenti sciolti in strati di roccia compatta.
Questi strati dei sedimenti rocciosi, generatisi sotto i fondali marini, sono emersi circa 20-30 milioni di anni fa a causa dei lenti movimenti della crosta terrestre. La Grotta Gigante contiene abbondanti fossili di rudiste, molluschi lamellibranchi estinti 65 milioni di anni fa nel corso della grande estinzione che portò anche alla scomparsa dei dinosauri. Una volta emerse dal mare, le rocce calcaree del Carso rimasero esposte all’azione delle acque piovane e dei fiumi, che cominciarono a scavare progressivamente, per dissoluzione ed erosione, ampie gallerie sotterranee, processo rinforzato dalle acque che deviarono il loro corso nel sottosuolo. Veri e propri fiumi sotterranei continuarono in seguito ad allargare le vecchie gallerie e a crearne di nuove, ancora più profonde, mentre quelle superiori venivano gradualmente abbandonate dai corsi d’acqua. Queste cavità cominciarono a subire lenti processi di riempimento di sostanze trasportate dall’acqua di gocciolamento proveniente dagli strati di roccia superiori. L’apporto di calcare costituisce la base per la formazione di concrezioni come stalattiti, stalagmiti e colate calcitiche, mentre altri minerali contribuiscono a dare a tali concrezioni differenti colorazioni. I corsi d’acqua hanno abbandonato la cavità ormai da moltissimo tempo, in un’epoca risalente ad almeno cinque milioni di anni fa. La morfologia attuale è frutto di profonde modifiche strutturali: la spettacolare Grande Caverna deve infatti la sua origine e la sua ampiezza al crollo di un diaframma di roccia che inizialmente separava due distinte gallerie sovrapposte. Tale colossale frana, databile a circa 500.000 anni fa, ha causato l’occlusione del proseguimento della grande galleria inferiore ma ha permesso la fusione di ciò che resta di questa con la più piccola galleria superiore, creando il vastissimo ambiente oggi visitabile. Un altro antico crollo ha permesso l’unione della Grotta Gigante con un profondo pozzo verticale attiguo, generato dall’acqua piovana in epoca più recente rispetto all’origine del resto della grotta. Da quando la cavità è stata abbandonata dai corsi d’acqua, al suo interno è cominciata anche la crescita di concrezioni calcitiche. Numerosissime infatti sono le stalattiti e stalagmiti che impreziosiscono la grotta. Tra le stalagmiti, che crescono attualmente ad una velocità media di 1mm ogni 15-20 anni, spicca l’imponente “Colonna Ruggero”, alta 12 metri e formatasi in circa 200.000 anni. Molte di queste concrezioni presentano una colorazione rossastra, dovuta alla presenza di ossidi di ferro.
La gestione turistica della Grotta Gigante è affidata alla Commissione Grotte “E. Boegan”, il gruppo speleologico della Società Alpina delle Giulie (la Sezione di Trieste del Club Alpino Italiano).Visitabile tutto l’anno, oltre alle attività turistiche (90.000 visitatori all’anno) e didattiche, vi si svolgono attività di ricerca scientifica.
Nel 1997 fu costruito il nuovo percorso di risalita, dedicato a Carlo Finocchiaro, a lungo presidente della Commissione Grotte E. Boegan e figura di spicco nel mondo della speleologia internazionale. Nel 2007 si concluse l’esplorazione dell’ultimo ramo laterale della Grotta Gigante, oggi dedicato allo speleologo Giorgio Coloni, che consente di raggiungere con l’ausilio di una vera e propria via ferrata la profondità di 250 metri, termina quindi a solo 20 metri sul livello del mare. Nel 2005 è stato inaugurato il nuovo “Centro accoglienza visitatori”, che ospita anche il Museo scientifico speleologico, mentre nel 2009 è stato rinnovato integralmente l’impianto d’illuminazione della grotta.




 (Fonti: Trieste di ieri e di oggi; Trieste e la sua Storia; Wikipedia e altre)

Venezia Giulia di ieri e di oggi

Clicca sul logo

La Venezia Giulia (in tedesco Julisch Venetien; in sloveno e croato Julijska Krajina; in veneto Venesia Juia; in friulano Vignesie Julie) è una regione storico-geografica concettualmente definita nell’Ottocento al pari delle Tre Venezie; attualmente politicamente e amministrativamente è divisa tra Italia, Slovenia e Croazia, con la parte rimasta all’Italia dopo la seconda guerra mondiale in seguito ai trattati di pace di Parigi del 1947 e del Memorandum di Londra del 1954, che costituisce, insieme al Friuli, la regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia.
Il nome è stato ideato nel 1863 dal linguista goriziano Graziadio Isaia Ascoli per contrapporlo al nome Litorale, creato dalle autorità austriache nel 1849 per identificare una regione amministrativa più o meno coincidente. Il patrionimico dell’area è giuliano (plurale giuliani).

I territori che hanno fatto parte della Venezia Giulia (Gorizia con gli altopiani carsici tra il Vipacco e l’Idria – e a nord dell’Idria, tra l’Isonzo e Alpi Giulie, con l’estremità orientale della Carnia friulana -, Trieste e il suo entroterra carsico delle Alpi Dinariche, fino al Vipacco e al Timavo, Pola con la penisola istriana, Fiume con le isole del Quarnaro e in primis Cherso, Lussino e altre isole minori, nonché Veglia, pur esclusa dall’annessione al Regno d’Italia a seguito della Prima Guerra Mondiale), iniziarono ad essere indicati con tale denominazione nel 1918. Furono sede, in età protostorica, della cultura dei castellieri e subirono successivamente un intenso processo di romanizzazione.
In età medievale non ebbero una storia comune almeno a partire dal X secolo, dal momento che l’Istria costiera si legò a Venezia da stretti vincoli politici e culturali, mentre l’Istria interna iniziò a ruotare sempre più entro l’orbita Sacro Romano Impero e asburgica. Anche Gorizia e il Friuli orientale, per lungo tempo governate da una famiglia comitale, vassalla prima dello Stato patriarcale di Aquileia e poi di Venezia, caddero, alle soglie dell’età moderna, sotto il potere della casa d’Austria. Caso a sé stante è rappresentato da Trieste che prima di associarsi all’Austria (1382) fu città vescovile e poi libero comune. La Venezia Giulia, unita all’Italia nel 1918, fu in massima parte annessa, al termine della seconda guerra mondiale, alla Jugoslavia (per la precisione vennero ceduti 7.625 km² di territorio).

Antichità preromana e romana

L’attuale regione giuliana fu abitata fin da epoca preistorica. A Visogliano, nel Carso triestino e a Pocala (Aurisina) sono venuti alla luce resti che documentano attività litiche durante il Paleolitico inferiore e medio. La prima cultura stanziale autoctona fu tuttavia quella dei castellieri, che iniziò a svilupparsi durante l’età del bronzo tardio, per protrarsi fino alla conquista romana (II secolo a.C.), coprendo un arco di oltre un millennio. Non conosciamo le origini del popolo o dei popoli di agricoltori e pastori che inizialmente elaborarono tale cultura che, nata in Istria, si estese, col tempo, fino alla Dalmazia e al Friuli.
Di certo agli albori dell’età del ferro (X – IX secolo a.C. circa) etnie indoeuropee di stirpe venetica o illirica (Istri, Liburni e Giapidi) dedite, oltre che alle attività primarie, anche alla navigazione e alla pirateria, imposero il proprio dominio sul territorio, sostituendosi o mescolandosi alle genti autoctone. Tali etnie, a contatto con le colonie greche dell’Adriatico e con l’evoluto popolo venetico (o paleoveneto), crearono, a partire dal V secolo a.C., anche degli insediamenti con caratteristiche propriamente urbane. Fra questi, assunse particolare importanza la città di Nesactium, capitale della federazione degli Istri situata nei pressi dell’attuale Pola (a propria volta castelliere fra i più importanti dell’Istria). In epoca successiva sopravvennero anche i Carni, di stirpe celtica, che dalla Carnia discesero nel Carso, occupandolo fino al Vipacco e al Timavo nel 186 a.C.

L’incorporazione del territorio allo Stato romano avvenne nei cinque o sei decenni che seguirono la fondazione della colonia di diritto latino di Aquileia (181 a.C.), che, alle soglie dell’età imperiale, era già divenuta la quarta città più popolosa d’Italia, capitale della Venetia et Histria, e massimo centro di irradiazione della romanità non solo nelle future regioni giuliana, friulana e veneta, ma anche nel Norico mediterraneo e in Dalmazia. Nel 42 a.C. il confine dell’Italia romana fu stabilito al fiume Tizio (poi conosciuto come Cherca) includendo l’intera costa liburnica e l’estremità settentrionale della Dalmazia con Iadera (attuale Zara), ma nel 16 a.C., per ragioni militari, Ottaviano ne dispose l’arretramento all’Arsa, escludendo la Liburnia.
Se Aquileia fu indiscutibilmente la realtà urbana più importante e prestigiosa dell’Italia nord-orientale, non fu l’unica: fin da epoca augustea era andato sviluppandosi in zona un certo numero di nuclei urbani, alcuni dei quali di dimensioni ragguardevoli, come Tergeste, Pietas Julia e Tarsatica, sviluppatasi da un precedente importante castelliere liburnico sul fiume Eneo; anch’esse nacquero come colonie di diritto latino e servirono come poli di romanizzazione delle aree circostanti; Castrum Silicanum (Salcano) e Pons Aesontii (Mainizza) furono edificati nell’area dell’attuale Gorizia. Tutto lascia supporre che, nei primi secoli dell’era cristiana, le popolazioni stanziate nella futura regione giuliana (in parte di origine latina), erano permeate di romanità, la quale « […] per la profondità delle sue radici, per la durata nel tempo, non è punto diversa…rispetto alla romanità delle altre terre dell’Italia settentrionale, dal finitimo Veneto all’opposto Piemonte ».

Dopo la distruzione di Aquileia ad opera degli unni di Attila (452), il territorio perdette il suo centro organizzatore, divenendo baluardo estremo di latinità a ridosso di province ex-romane sempre più germanizzate. Nel 493 fu incorporato al regno ostrogoto da Teodorico. Al dissolvimento dello Stato ostrogoto, la massima parte della regione entrò nella sfera bizantina (territori a sud dell’Isonzo), salvaguardando o persino rafforzando la propria romanità nei due secoli e mezzo successivi di ininterrotta dominazione romano-orientale (539-787), mentre l’esigua parte restante fu occupata dai Longobardi allorquando questi invasero l’Italia (568). Il popolo franco, negli ultimi decenni dell’VIII secolo, si sostituì sia ai longobardi che ai bizantini, imponendo il proprio dominio sull’intero territorio, che inserì stabilmente nel Regnum Italicorum. In età ottoniana (X secolo) Trieste iniziò ad essere governata come entità autonoma dai suoi vescovi, per convertirsi in libero comune (XIII secolo), mentre i centri abitati della costa occidentale dell’Istria si orientavano sempre più verso Venezia, non soggetta all’autorità del sacro romano impero e in piena espansione demografica ed economica ancor prima dell’anno 1000. Il resto del territorio giuliano (Friuli orientale, Istria interna, ecc.) restò invece vincolato, in maggiore o minor misura, al Sacro Romano Impero, anche quando i Patriarchi di Aquileia, sul finire dell’XI secolo ottennero dall’imperatore Enrico IV l’investitura della Contea d’Istria, del Ducato del Friuli (1077) e il titolo di Principi (da qui il nome di Principato ecclesiastico di Aquileia).
Come loro “avvocati” (cioè vassalli), detennero il potere nel Friuli orientale (oltreché in Tirolo e in altre zone d’Italia e Austria) i Lurngau, conti di Gorizia, centro abitato nato agli albori del secondo millennio a ridosso di una regione abitata prevalentemente da genti slave. Queste ultime, presenti in zona fin da epoca bizantina e longobarda, si diffusero, nei secoli successivi, in quasi tutti i territori che poi avrebbero conformato la Venezia Giulia: Croati a sud, nell’Istria interna e orientale, oltre che nell’entroterra fiumano e nel Quarnero; Sloveni nell’estremo lembo settentrionale dell’Istria, nel Carso triestino e nel Friuli orientale. Fu, quella slava, un’immigrazione di carattere rurale che coinvolse solo marginalmente i centri abitati maggiori, popolati in massima parte da gruppi etnici autoctoni di origine italica o comunque romanica (veneti, friulani, dalmati, ecc.).

Il passaggio della contea di Pisino agli Asburgo (1374), la libera associazione di Trieste alla casa d’Austria, (1382), l’incorporazione di Fiume agli Stati asburgici (1471), la cessione della Contea di Gorizia all’imperatore Massimiliano (1500), unitamente al dominio diretto di Venezia sulle isole del Quarnero e su tanta parte dell’Istria (affermatosi progressivamente fra il XII e il XV secolo), oltreché su alcune zone del Friuli orientale, fra cui Monfalcone (XV secolo), vennero sempre più a conformare due blocchi all’interno del futuro territorio giuliano: uno asburgico e l’altro, di dimensioni più contenute, veneto.
Tale suddivisione si protrasse fino agli ultimi anni del Settecento, allorquando, con il trattato di Campoformido (1797), anche le città e i territori veneti passarono all’Austria. Quest’ultima, circa vent’anni prima aveva ceduto Fiume all’Ungheria (1776-1779). In età napoleonica il nuovo ordine territoriale della regione fu temporaneamente sovvertito, ma nel 1814-1815 l’Austria rientrò in possesso di tutti i territori che avrebbero successivamente fatto parte della Venezia Giulia.
In tale ampio arco di tempo la composizione etnica e linguistica della popolazione che abitava la regione non subì trasformazioni sostanziali, con l’elemento italiano predominante in tutte le realtà urbane di una certa entità (Gorizia, Gradisca, Trieste, Capodistria, Pola, Fiume, ecc.) e quello slavo, maggioritario invece nei piccoli centri agricoli e nelle campagne, rafforzatosi ulteriormente in alcune zone, e in particolare nella penisola istriana, durante i primi due secoli dell’età moderna (sia per effetto dell’avanzata turca che a causa dei vuoti lasciati da alcune catastrofiche pestilenze. L’immigrazione di croati e sloveni, unitamente a quella di albanesi e di valacchi, fu all’epoca incoraggiata dalle autorità locali). Per quanto riguarda la componente germanica, impiegata soprattutto nella pubblica amministrazione e nell’esercito, subì un certo incremento nelle città in età teresiana e giuseppina, dovuto al processo di modernizzazione e burocratizzazione dello Stato austriaco, senza però riuscire mai costituire gruppi minoritari di una certa consistenza, soprattutto a Trieste.
Una regione contesa. La questione relativa al nome delle terre ai confini fra il Regno d’Italia e l’Impero austriaco fu indicativa d’una situazione nella quale si venivano radicalizzando le varie pulsioni nazionali.
Nei primi sessant’anni del XIX secolo l’Impero Austriaco conobbe una serie di modificazioni territoriali, che si accompagnarono a varie modifiche di carattere costituzionale e amministrativo. All’interno delle terre definite successivamente da Graziadio Isaia Ascoli come Venezia Giulia, nel 1816 sul modello delle Province illiriche napoleoniche si decise la costituzione del Regno di Illiria (Königreich Illyrien), diviso in due governatorati con Lubiana e Trieste come capoluoghi. La Contea di Gorizia e Gradisca (Gefürstete Grafschaft Görz und Gradiska), le due Istrie (quella già veneziana e quella già asburgica) e le tre isole del Quarnaro – Veglia, Cherso e Lussino – fino a quel momento parti della Dalmazia storica, rientravano sotto la giurisdizione di Trieste. Nel 1825 i due circoli istriani vennero uniti in uno solo, con capoluogo Pisino. A quella data Gorizia, con l’Istria e Trieste, costituiva il Litorale (Küstenland) del Regno d’Illiria, che era completato a nord dai Ducati di Carinzia e di Carniola (Herzogthümer Kärnthen und Krain).
I rivolgimenti nazionali interni all’Impero si ripercossero anche in queste regioni: nel 1848 ad un risveglio nazionale di carattere italiano in Istria fece riscontro un contemporaneo risveglio nazionale sloveno, prevalentemente nei territori dei Ducati di Carinzia e di Carniola. Gli sloveni, popolazione maggioritaria del regno d’Illiria, proposero di includere all’interno dei confini del suddetto regno anche ampie parti della Stiria, in modo da unire tutte le terre considerate slovene in un’unica unità amministrativa. Il geografo sloveno Peter Kozler disegnò una mappa (“Mappa delle terre e regioni slovene” – Zemljovid Slovenske dežele in pokrajin), in base alla quale si sarebbero dovuti ridefinire i confini illirici in modo che potesse nascere un grande stato di nazionalità slovena. Egli inserì fra le terre slovene anche parti del Friuli orientale e l’intera costa adriatica fino a Monfalcone, prevedendo l’inserimento all’interno dei confini anche della zona di Grado. La mappa è tuttora considerata fra i massimi simboli del nazionalismo sloveno.
Nella nuova costituzione austriaca del 4 marzo 1849 queste terre vennero nuovamente chiamate Regno di Illiria (Königreich Illyrien, o anche Illirien), ma nel corso dello stesso anno – nell’ambito della fase neoassolutistica dell’Impero, che portò all’annullamento prima di fatto e poi di diritto della costituzione – il Regno d’Illiria venne abolito e sostituito da un sistema più articolato: vennero riformate le Province della Corona, le quali a loro volta furono inserite – per quanto riguarda quella che successivamente fu la parte austriaca dell’Impero – in quattordici Regni (Königreiche) e Regioni (Länder). Si creò così il Litorale Austro-Illirico (Österreichisch-Illyrische Küstenland), come mera suddivisione amministrativa, non dotata però di proprie istituzioni rappresentative se si esclude la presenza a Trieste – considerato capoluogo della regione – di un luogotenente imperiale con competenza sull’intero territorio: a partire dal 1861 – invece – le tre terre costituenti il Litorale ebbero ognuna un proprio parlamento locale (Dieta), nominato in base a regolari elezioni.
Tralasciando la limitata presenza tedesca nell’area, in senso generale si può affermare che nelle zone identificate da Ascoli come Venezia Giulia si svilupparono due diverse dimensioni nazionali: quella italiana e quella slava (slovena e croata), che nel tempo scatenarono un antagonismo a tutto campo, che comprese anche la definizione del nome geografico di queste terre di confine. Ciò si riflette anche sull’attuale nome ufficiale dei territori sloveni già facenti parte della Venezia Giulia italiana, chiamati Primorska (Litorale) e riprendendo quindi la definizione austriaca, nata nella prima metà del XIX secolo. Per motivi meramente statistici (senza quindi alcun valore amministrativo né geografico), questa parte della Slovenia oggi è divisa nelle due regioni statistiche del Goriziano sloveno (Goriška) e Carsico-litoranea (Obalno-kraška). Il nome storico di “Istria” in Slovenia ha quindi oggi solo una valenza storico-geografica.
Come conseguenza della terza guerra d’indipendenza italiana, che portò all’annessione del Veneto al Regno d’Italia, l’amministrazione imperiale austriaca, per tutta la seconda metà del XIX secolo, aumentò le ingerenze sulla gestione politica del territorio per attenuare l’influenza del gruppo etnico italiano temendone le correnti irredentiste. Durante la riunione del consiglio dei ministri del 12 novembre 1866 l’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria tracciò un progetto di ampio respiro mirante alla germanizzazione o slavizzazione dell’aree dell’impero con presenza italiana:
«Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno. Sua maestà richiama gli uffici centrali al forte dovere di procedere in questo modo a quanto stabilito.»
(Francesco Giuseppe I d’Austria, consiglio della Corona del 12 novembre 1866.)
Queste ingerenze, insieme ad altre azioni di favoreggiamento al gruppo etnico slavo ritenuto dall’impero più fedele alla corona, esasperarono la situazione andando ad alimentare le correnti più estremiste e rivoluzionarie.
 

La prima definizione della Venezia Giulia

Il Litorale Austriaco (1897)
Fu quindi in tale complesso contesto storico e nazionale che il glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli propose nel 1863 di adottare – in alternativa a Litorale Austriaco – la denominazione di Venezia Giulia. La proposta non aveva finalità irredentiste: Ascoli aveva piuttosto l’intenzione di marcare l’italianità culturale della regione. Il nome derivava dalla Regio X, una delle regiones in cui Augusto divise l’Italia intorno al 7 d.C., successivamente indicata dagli storici come Venetia et Histria. Il suo territorio corrispondeva alle antiche regioni geografiche della Venezia e dell’Istria. L’Ascoli divise il territorio della Regio X in tre parti (le cosiddette Tre Venezie): la Venezia Giulia (Friuli orientale, Trieste, Istria, parti della Carniola e della Iapidia), la Venezia Tridentina (il Trentino e l’Alto Adige) e la Venezia Propria (Veneto e Friuli centro-occidentale). È da tener presente che nel momento in cui l’Ascoli suggeriva il nome Venezia Giulia tutte queste regioni facevano parte dell’impero d’Austria. La stessa Venetia et Histria era inoltre più vasta del territorio che l’Ascoli definiva con il termine di Venezie, comprendendo anche le attuali province lombarde di Brescia, Cremona e Mantova.
Ecco come l’Ascoli ripartì il territorio, identificando di conseguenza la Venezia Giulia:
«Noi diremo “Venezia propria” il territorio rinchiuso negli attuali confini amministrativi delle province venete; diremo “Venezia Tridentina” o “Retica” (meglio “Tridentina”) quello che pende dalle Alpi Tridentine e può avere per capitale Trento; e “Venezia Giulia” ci sarà la provincia che tra la Venezia Propria e le Alpi Giulie e il mare rinserra Gorizia, Trieste e l’Istria. Nella denominazione comprensiva “Le Venezie” avremo poi un appellativo che per ambiguità preziosa dice classicamente la sola Venezia Propria, e perciò potrebbe stare sin d’ora, cautamente ardito, sul labbro e nelle note dei nostri diplomatici. Noi ci stimiamo sicuri del buon effetto di tale battesimo sulle popolazioni a cui intendiamo amministrarlo; le quali ne sentono tutta la verità. Trieste, Roveredo, Trento, Monfalcone, Pola, Capodistria, hanno la favella di Vicenza, di Verona, di Treviso; Gorizia, Gradisca, Cormons, quella d’Udine e di Palmanova. Noi abbiamo in ispecie ottime ragioni d’andar sicuri che la splendida e ospitalissima Trieste s’intitolerà con gaudio orgoglio la Capitale della Venezia Giulia. E non ci resta che di raccomandare questo nostro battesimo al giornalismo nazionale; bramosi che presto sorga il dì in cui raccomandarlo ai Ministri e al Parlamento d’Italia e al valorosissimo suo Re.»
(Graziadio Isaia Ascoli, “Le Venezie”, 1863)
Gli irredentisti italiani non furono mai concordi sui territori che avrebbero dovuto essere oggetto delle rivendicazioni nazionali sul confine orientale. Per molti aderenti o futuri aderenti al movimento irredentista, e anche per alcune personalità politiche non ascrivibili a tale movimento (fra cui Giuseppe Mazzini e il liberale di idee moderate Ruggiero Bonghi), il Litorale Austriaco avrebbe dovuto entrare a far parte, interamente o nella sua quasi totalità, del giovane Regno d’Italia. Altri ritenevano invece che anche la Dalmazia costiera facesse parte delle “terre irredente”. Le rivendicazioni più estreme di questi ultimi presero piede soprattutto a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo, ma furono politicamente fatte proprie dal Regno d’Italia solo negli anni che precedettero la Grande Guerra.

La denominazione ascoliana non si impose tuttavia con immediatezza, anche se alcuni irredentisti iniziarono ad utilizzarla in conferenze e testi fin dagli anni ottanta dell’Ottocento. Tali territori furono infatti definiti, oltre che Venezia Giulia, in molte maniere: Litorale Veneto orientale, Litorale triestino, Litorale Veneto Istriano, Istria e Trieste, Litorale delle Alpi Giulie, Frontiera orientale e Regione Giulia.
Ai primi del Novecento la contrapposizione ideologica tra irredentisti italiani e lealisti asburgici (in massima parte appartenenti al gruppo etnico tedesco e a quelli sloveno e croato) iniziò ad esprimersi anche sotto un profilo terminologico: i secondi preferivano continuare ad usare la denominazione Litorale Austriaco, mentre i primi rivendicavano la legittimità della definizione di Venezia Giulia. Esemplare in questo senso è la diatriba tra il conte Attems – rappresentante del governo austriaco a Gorizia – e l’irredentista Gaetano Pietra. Il primo nel 1907 negava decisamente l’esistenza di una Regione Giulia:
«Finalmente non posso fare a meno di contestare la legalità della denominazione di Regione Giulia ai nostri paesi, denominazione inammissibile poiché la Contea Principesca di Gorizia-Gradisca con il Margraviato d’Istria e con la città immediata di Trieste costituiscono il Litorale ma non la Regione Giulia.»
Pietra si era opposto dicendo che:
«A noi suona meglio il nome di Venezia Giulia perché ha in sé tutta l’armonia delle memorie! e noi, lo diciamo anche altrove, sentiamo tutta la tenerezza delle memorie patrie! D’altronde abbiamo anche un convincimento: L’aquila ha battuto alte le penne dalle nostre alpi al mare nostro, e tutta ancora la terra risuona della voce della grande madre latina — l’artiglio del leone ha stampato la sua impronta sul petto degli abitanti e l’anima della Dogale palpita nel cuore dei popoli! Ora di tali fatti compiuti, pur sopprimendo anche nel nome gli ultimi esteriori vestigi rimangono le profonde indelebili impressioni nelle coscienze! E noi siamo sicuri della coscienza nazionale di nostra gente per preoccuparci, come ha mostrato d’altro canto il rappresentante del governo, perché il nostro paese venga indicato, da chi proprio lo desidera, con un nome, secondo noi, meno eufonico di Venezia Giulia e sia pure non di nostra favella!»
Solo agli inizi del Novecento si venne sempre più imponendo la denominazione di Venezia Giulia. In Friuli, la denominazione di Venezia Giulia non veniva avvertita negativamente, tant’è vero che la rivista udinese Pagine Friulane recensì in termini molto positivi la ristampa dell’opera del liberale Bonghi intitolata proprio Venezia Giulia. Se è vero che gran parte della classe dirigente friulana di allora non si oppose al nome Venezia Giulia, è però da ricordare che alcuni intellettuali friulani fin da quegli anni rivendicavano un’autonomia all’interno dello Stato italiano (o anche al di fuori di esso). Com’è noto, durante il ventennio fascista gli avvenimenti presero una piega che rese irrealizzabili non solo tali aspirazioni, ma anche lo sviluppo della vita democratica e delle libertà civili e politiche in tutta l’Italia.
Al termine della prima guerra mondiale, considerata da taluni l’ultimo atto del risorgimento nazionale la denominazione di Venezia Giulia venne ad essere adottata in forma semiufficiale per designare tutti i territori ad est del Veneto precedentemente posti sotto sovranità austriaca e annessi dall’Italia. Questi comprendevano, oltre a tutto l’ex Litorale Austriaco (tranne il comune istriano di Castua e l’isola di Veglia, andati al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), alcune zone della Carniola (i distretti di Idria, Postumia, Villa del Nevoso e alcuni villaggi del Tarvisiano) e della Carinzia (la maggior parte della Val Canale), nonché in certi contesti la città dalmata di Zara. Il Tarvisiano e ad alcuni comuni della bassa friulana ex-austriaca (Cervignano, Aquileia, ecc.), furono però incorporati nella prima metà degli anni venti nella Provincia di Udine (anche se solo a partire dal 1925 iniziarono ad apparire in tutte le mappe ufficiali o semiufficiali e nelle rilevazioni statistiche come facenti parte di tale provincia), e vennero in tal modo a perdere, anche nell’immaginario collettivo, le proprie connotazioni giuliane, mentre Fiume, annessa al Regno d’Italia nel 1924 passò a formar parte a pieno titolo della Venezia Giulia. Il 5 giugno del 1921 il Regno d’Italia emetteva una serie di francobollo detta appunto Annessione della Venezia Giulia per commemorare tale avvenimento.
Anche durante il fascismo la denominazione di Venezia Giulia venne utilizzata inizialmente per designare l’insieme dei territori annessi all’Italia dopo la Prima guerra mondiale lungo il confine con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (successivamente divenuto Regno di Jugoslavia): una buona esemplificazione di questo concetto di Venezia Giulia è data dalle mappe pubblicate postume da Marinelli nel 1920 integrando manoscritti di Cesare Battisti. Tale territorio è la sommatoria di parti di diverse zone geografiche (Trieste, Istria, Friuli orientale, Carniola, Carinzia meridionale, ecc).
Nel corso dell’VIII Congresso Geografico Italiano (marzo-aprile 1921), venne votato all’unanimità un ordine del giorno – presentato dal geografo friulano Olinto Marinelli – col quale si chiedeva che il nome di Venezia Giulia (o altro equivalente) avesse “d’ora innanzi a comprendere, oltre ai territori redenti, anche l’intero territorio friulano”. Il nome proposto dal congresso fu “Regione Giulia”, ritenendo quindi superata la denominazione ascoliana. A partire da questa determinazione, il nome Venezia Giulia andò quindi a identificare, per alcuni geografi, le province del Friuli (Udine), Gorizia, Trieste, Istria (Pola) e la Liburnia (Carnaro). Lo stesso avvenne anche nelle edizioni del Touring Club Italiano: si veda in tale proposito la mappa della Venezia Giulia – comprendente il Friuli – pubblicata dal TCI nel 1928. La Treccani, massima espressione della cultura italiana del tempo, non recepì tuttavia gli orientamenti della Reale Società Geografica Italiana e continuò ad inserire la Provincia del Friuli nel Veneto (Venezia Euganea). Allo stesso modo, anche l’Istituto Centrale di Statistica, nei suoi rilevamenti, considerò tale provincia, agli effetti statistici, come facente parte della Venezia Euganea.

Mappa delle Tre Venezie
Il termine Venezia Giulia come unità amministrativa provinciale fu adottato ufficialmente solo per un breve periodo (fra l’ottobre 1922 e il gennaio 1923, prima che iniziassero a funzionare le appena create province di Pola e di Trieste). In Italia le Regioni come enti autonomi furono infatti istituite con lo Statuto speciale per la Sicilia (1946), prima, e la Costituzione repubblicana (1948) poi. Anteriormente a tali date le Regioni erano solamente realtà geografico-fisiche e statistiche, dal momento che sul piano politico-amministrativo l’Italia riconosceva solo tre enti territoriali: Stato, Province e Comuni. Durante il periodo fascista il termine di Venezia Giulia si utilizzò diffusamente e nei più svariati contesti (geografici, storici, socioculturali, ecc.). L’impiego reiterato di tale termine venne associato dalle minoranze etniche slovene e croate presenti sul territorio (e apertamente perseguitate dal regime) ad un evidente tentativo di cancellare anche nominalmente la propria presenza dalla Regione.
La politica fascista di italianizzazione forzata delle terre di recente conquista provocò l’emigrazione di un gran numero di tedeschi, sloveni e croati. Molti militari e funzionari pubblici, fra cui la quasi totalità degli insegnanti di lingua slovena e croata furono licenziati o allontanati in vario modo e sostituiti da italiani. L’emigrazione del bracciantato agricolo, dal resto d’Italia alla Venezia Giulia, fu irrilevante, mentre un certo numero di lavoratori dell’industria e di portuali trovarono impiego nei cantieri di Monfalcone, nella zona industriale di Trieste e nei porti di Trieste, di Pola e (successivamente) di Fiume.
Durante la Seconda guerra mondiale, dopo l’invasione della Jugoslavia nell’aprile 1941 da parte dell’Italia e della Germania, la Provincia di Fiume venne ingrandita e la Venezia Giulia si accrebbe dell’entroterra fiumano.
Come conseguenza dello smembramento della Jugoslavia nel 1941 si modificarono (e crearono) le seguenti Province del “Compartimento statistico della Venezia Giulia”:
la provincia del Carnaro (1924-1947) comprendeva Fiume, la Liburnia (con la città di Abbazia) e l’alta valle del Timavo (con la città di Villa del Nevoso). Dopo il 1941 la sua superficie verrà ampliata con l’inclusione di tutto l’entroterra orientale di Fiume, arrivando anche a comprendere le isole di Veglia e Arbe e la città di Buccari. Faceva parte del “Compartimento statistico della Venezia Giulia”.
la provincia di Lubiana (1941-1943) comprendeva la Slovenia centro-meridionale e aveva, essendo abitata da sloveni, come lingue ufficiali l’italiano e lo sloveno. Fu inclusa nel “Compartimento statistico della Venezia Giulia”.
la provincia di Zara (1920-1947) che comprendeva fino al 1941: il comune di Zara, e le isole di Cazza e Lagosta (distanti 200 km da Zara), Pelagosa (distante 250 km da Zara) e l’isola di Saseno, di fronte all’Albania a ben 525 km da Zara e faceva parte del “Compartimento statistico della Venezia Giulia”. Dal 1941 al 1943 la provincia comprendeva Zara e il suo entroterra, più le isole davanti a Zara che passarono sotto sovranità italiana, divenendo parte, assieme alle province di Spalato e Cattaro, del Governatorato della Dalmazia.
Nel settembre 1943 la Venezia Giulia fu occupata dalle truppe tedesche, pur senza essere formalmente annessa al Terzo Reich. Passò comunque in quello stesso mese a dipendere dal gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer, nominato per l’occasione commissario supremo del Litorale Adriatico.
 

La questione giuliana

Modifiche al confine orientale italiano dal 1920 al 1975.
Il Litorale austriaco, poi ribattezzato Venezia Giulia, che fu assegnato all’Italia nel 1920 con il trattato di Rapallo (con ritocchi del suo confine nel 1924 dopo il trattato di Roma) e che fu poi ceduto alla Jugoslavia nel 1947 con i trattati di Parigi.


Nel 1954 le truppe anglo-americane lasciarono la “zona A”, affidandone l’amministrazione militare all’Italia.
La diatriba tra Italia e Jugoslavia per la linea di demarcazione tra le due zone del territorio Libero ebbe risoluzione con il trattato di Osimo, del 10 novembre 1975. Alla fine della Seconda guerra mondiale la questione della Venezia Giulia fu oggetto di attenzioni internazionali, essendo le province di Zara, Pola, Fiume, Gorizia e Trieste (nonché parti della provincia di Udine) reclamate dalla Jugoslavia in quanto “terre slave”. In questo contesto si inserisce anche la nascita della definizione slovena Julijska krajina. In realtà già durante il ventennio fascista questo nome fu molto utilizzato dagli sloveni e croati dei territori annessi all’Italia, nelle denominazioni delle loro organizzazioni. Così ad esempio, nel 1932, l’associazione degli esuli sloveni e croati in Jugoslavia fu denominata “Unione degli emigranti jugoslavi dalla Julijska krajina”. Questa definizione non è, come spesso si crede, la traduzione slovena di “Venezia Giulia”, mancando la parola “Venezia”: è invece un nome creato dagli sloveni in alternativa all’osteggiato “Venezia Giulia”.
Dopo la seconda guerra mondiale la massima parte della regione è passata a Slovenia e Croazia, allora parti della Jugoslavia. In quel periodo si verificò l’emigrazione massiccia del gruppo etnico italiano (270.000 profughi circa secondo le stime del Ministero degli esteri italiano, 250.000 secondo le stime dell’Opera Profughi, 190.000 secondo gli studi condotti in Slovenia e Croazia, 301.000 secondo recenti studi storico-statistici), dovuta sia alle persecuzioni titine che ad altre cause, non ultime quelle di indole economica e sociale. Anche un certo numero di croati e di sloveni abbandonò la Venezia Giulia annessa e/o amministrata dalla Jugoslavia perché contrari al regime dittatoriale instaurato da Tito.

Con la fine della Seconda guerra mondiale e la costituzione della Repubblica Italiana, il nome Venezia Giulia fu utilizzato per la prima volta in una denominazione amministrativa ufficiale. Infatti la Costituzione repubblicana previde la creazione della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, nata dall’unione della Provincia di Udine (che allora comprendeva anche la Provincia di Pordenone, istituita solo nel 1966) con quello che rimaneva all’Italia delle terre conquistate alla fine della Prima guerra mondiale.
Il nome venne proposto dal deputato friulano Tiziano Tessitori, come alternativa alla denominazione Regione giulio-friulana e Zara, proposta dal triestino Fausto Pecorari.
La decisione di costituire una regione che contenesse anche la denominazione “Venezia Giulia” e che fosse retta da uno speciale statuto di autonomia, rispose ad una duplice motivazione: da un lato s’intendeva dare attuazione al dettato del Trattato di pace, per cui “per le minoranze etniche sono da accordarsi delle garanzie”, dall’altra si voleva indicare – anche simbolicamente – la speranza che Trieste e l’Istria venissero assegnate all’Italia, in un’auspicata revisione delle clausole del Trattato stesso.
Questa denominazione innescò per la prima volta nella storia una tensione tra la fazione autonomistica dei friulani (che reclamavano una regione esclusivamente propria) e Trieste. Tale tensione (che si acuì nei primi anni sessanta quando la Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia venne effettivamente costituita) si tradusse anche nell’opposizione da parte di alcuni esponenti friulani alla legittimità storica dell’uso del termine Venezia Giulia e in divergenze di pensiero sulla delimitazione dei due territori. Per i friulani – infatti – la Venezia Giulia attualmente corrisponderebbe alla sola provincia di Trieste, mentre per i triestini, invece, essa includerebbe anche la provincia di Gorizia (interamente o in gran parte). Va pertanto sottolineato che le due entità storico-territoriali possono considerarsi, almeno secondo alcune accezioni, parzialmente sovrapposte.

Oggi, quindi, la Venezia Giulia è per molti quanto rimane del Territorio Libero di Trieste assegnato all’Italia alla fine della seconda guerra mondiale e, secondo un’opinione diffusa, anche di parte di quella di Gorizia (in particolare la sua parte venetofona, e cioè la Bisiacaria), che pur faceva anticamente parte del Friuli storico. Per quanto riguarda Grado e Marano Lagunare, la loro appartenenza alla Venezia Giulia è oggetto di discussioni. Pur essendo infatti i due centri venetofoni, (Grado è la patria del massimo poeta italiano in lingua veneta del Novecento, Biagio Marin), furono anch’essi secolarmente legati al Friuli e allo stato patriarcale di Aquileia.


Come s’è già rilevato, il confine fra la parte giuliana e la parte friulana della regione Friuli-Venezia Giulia non è ben definito. Identificando in ipotesi la Venezia Giulia con i territori che giacciono ad est della provincia di Udine, questa attualmente comprenderebbe le province di Gorizia e di Trieste, nelle quali è concentrata la parte maggiore della minoranza slovena in Italia.
Nell’attuale Venezia Giulia l’Italiano, lingua ufficiale dello Stato italiano, è la lingua più diffusa, con uno status dominante e viene parlata, accanto ad altre lingue neolatine e/o loro dialetti, dalla gran maggioranza della popolazione.
I dialetti romanzi parlati sono di tipo veneto: il triestino è una parlata che ha sostituito il tergestino, che era un più antico idioma retoromanzo (strettamente imparentato al friulano). Infatti dopo il 1719 – anno in cui Casa d’Austria scelse Trieste per costruire il suo principale porto commerciale – la popolazione triestina passò dai seimila abitanti del 1740 agli oltre duecentomila di metà Ottocento, provocando un cambio linguistico determinato dalla massiccia immigrazione di popolazioni di lingua veneta coloniale provenienti principalmente dalla costa istriana. Costoro emigravano a Trieste attratti da migliori prospettive di lavoro. L’antico dialetto tergestino di tipo retoromanzo continuò ad essere utilizzato ben oltre questa sostituzione, per circa un secolo, solo come lingua nobiliare.
Parimenti anche a Muggia era diffuso un idioma retoromanzo, il muggesano, che sopravvisse lungamente al tergestino, spegnendosi solo con la morte del suo ultimo parlante, Giuseppe de Jurco, nel 1887. Attualmente a Muggia, l’unico comune istriano rimasto all’Italia dopo l’ultima guerra, si parla un dialetto istroveneto profondamente influenzato dal triestino
Il dialetto bisiaco è invece un idioma risultato della progressiva venetizzazione della popolazione originariamente friulanofona e, in minor misura, slovenofona, storicamente appartenente al Friuli. La dominazione veneziana (che aveva in Monfalcone una strategica enclave in questo estremo lembo della pianura friulana) e la vicinanza di Trieste venetizzarono in tal modo la parlata originaria, la cui origine risulta in parte dalla persistenza di un certo numero di elementi lessicali del friulano nonché dello sloveno, anche dall’esistenza di piccole isole linguistiche friulane sparse nel proprio territorio, oggi in fortissimo regresso e sopravviventi solo nell’area prossima all’Isonzo e slovene adiacenti al Carso. Secondo una teoria, confermata da documenti e sostenuta da molti linguisti e storici, l’attuale dialetto bisiaco deve la sua origine ad un ripopolamento in età rinascimentale del territorio oggi chiamato Bisiacaria, e fino ad allora abitato esclusivamente da friulanofoni e, in minor misura, da sloveni. I nuovi arrivati, di parlata veneta e veneto-orientale (un modello veneto diffuso all’epoca in Istria in Dalmazia), non erano in numero sufficiente per dar vita ad una sostituzione linguistica (come invece accadrà a Trieste a partire dal 1800). Per cui si ebbe, sul piano linguistico, una lenta fusione con la precedente realtà friulanofona/slavofona. Da qui la forte presenza del sostrato friulano e sloveno, sia nel lessico che nella morfologia nel bisiaco parlato, fino almeno agli anni trenta e quaranta del Novecento. Oggigiorno il dialetto bisiaco ha perso molte delle proprie connotazioni originarie e risulta essere fortemente triestinizzato, tanto che molti parlanti ritengono che la parlata tradizionale della propria terra sia ormai quasi scomparsa.
Vi è quindi il gradese, una variante veneta arcaica parlata a Grado e nella sua laguna e ritenuta endemica della località, similmente alla parlata (ancor più arcaica) della vicina località lagunare friulana di Marano. Il Gradese e, più in generale, il veneto coloniale, ha avuto come massimo esponente il poeta Biagio Marin.
Lo sloveno, è, nella maggior parte delle zone in cui è diffuso, lingua amministrativa e di cultura insieme all’italiano. Parlate slovene sono utilizzate nell’entroterra carsico italiano e nella stessa città di Trieste. Lo sloveno, nonostante il grande afflusso di esuli istriani nel secondo dopoguerra (particolarmente accentuato nel decennio 1945-1955) in zone etnicamente slovene fin da età medievale, continua ad essere lingua maggioritaria in tre dei 6 comuni che compongono la provincia di Trieste, oltreché nelle frazioni carsiche del capoluogo giuliano (Villa Opicina, Basovizza, ecc.) e nel Carso goriziano.
Inoltre, considerando l’intera provincia di Gorizia (e non solo la Bisiacaria) come facente parte della Venezia Giulia, bisogna aggiungere lo sloveno, parlato nel Collio, sul Carso goriziano e nella città stessa, il Dialetto goriziano nonché la lingua friulana diffusa, da sempre, nella parte settentrionale della provincia e nel capoluogo (nella sua varietà goriziana).
Riguardo alla definizione del termine “giuliano”, è da notare che l’” Associazione giuliani nel mondo” ammette come propri soci “i corregionali di identità e di cultura italiana provenienti dalla Venezia Giulia, dall’Istria, da Fiume, dalle isole del Quarnero e dalla Dalmazia (…) residenti all’estero e nelle altre regioni italiane e loro discendenti”, escludendo di conseguenza i non italiani. La stessa preclusione nazionale è prevista anche dallo statuto dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.


Elenco dei comuni della Venezia Giulia italiana.


Il territorio della Venezia Giulia, durante la sua appartenenza all’Italia tra il 1919 e il 1947 era suddiviso in 128 comuni ripartiti, dal 1927, fra 5 province. Dopo la Seconda guerra mondiale, da cui l’Italia era uscita sconfitta, 98 comuni (fra cui 3 intere province) furono assegnati dall’Accordo di Pace di Parigi – 10.2.1947 – completamente alla Jugoslavia. Nel 1947, con la firma del Trattato di pace, Trieste, assieme ad alcune località situate in una stretta fascia costiera, divenne indipendente sotto il controllo militare alleato con la costituzione del Territorio Libero di Trieste (diviso fra la zona A – Trieste e dintorni – e zona B – Istria nord-occidentale). Come conseguenza, il mandamento di Monfalcone, corrispondente alla Bisiacaria, venne restituito alla provincia di Gorizia cui era stato legato per secoli. Con il Memorandum d’intesa di Londra del 5 ottobre 1954, l’amministrazione civile della zona A del Territorio Libero di Trieste fu assegnata all’Italia, salvo alcune rettifiche territoriali a favore della Jugoslavia che però costrinsero le autorità garanti a tracciare una nuova linea di confine, sostitutiva della precedente demarcazione tra le zone A e B. Successivamente, con il Trattato di Osimo del 1975, tale confine, considerato, anche per motivi di ordine interno, provvisorio dalle due parti per oltre vent’anni (1954-1975), venne reso definitivo dall’Italia e dalla Jugoslavia. (Fonti: Wikipedia)

Istria di ieri e di oggi

Clicca sul logo

Per chi visita l’Istria, per diletto o per turismo estivo, la conoscenza di questa meravigliosa penisola è sicuramente subordinata ai suoi fatti storici. Dalla conquista romana alle invasioni barbariche, dal dominio della Serenissima a quello di Casa d’Austria, e infine sotto il Regno d’Italia, quando dopo l’ultimo conflitto si è visto il grande esodo della maggioranza della popolazione italiana. Una lunga storia che ha plasmato e anche sconvolto l’essenza di questa terra.
L’Istria (in latino Histria, in croato e sloveno Istra), è una penisola di forma triangolare che si estende nel mar Adriatico tra il Golfo di Trieste, le Alpi Giulie, le Alpi Dinariche e il Golfo del Quarnaro.
Il territorio è amministrato dalla Slovenia nelle città costiere di Ancarano, Isola, Portorose, Pirano e Capodistria; dalla Croazia per gran parte della sua estensione; per una minima parte si trova in territorio italiano, nei comuni di Muggia e di San Dorligo della Valle.
Vi si distinguono tre tipi di paesaggi, ognuno dominato da una colore caratteristico: l’Istria bianca, per le rocce calcaree di morfologia montuosa, che si eleva fino al Monte Maggiore con i suoi 1396 metri; l’Istria gialla (o grigia), dal colore dei suoi terreni ricchi di rocce sedimentarie quali argilla, marna e arenaria (occupa la zona centrale della regione e si estende dal Golfo di Trieste al Quarnaro); l’Istria rossa, che presenta uno strato di terra rossa poggiato su rocce calcaree (è un altopiano che si estende dalle zone meridionali e occidentali fino a raggiungere le coste).
I fiumi istriani hanno le loro sorgenti nell’Istria gialla: sul versante occidentale troviamo il Rosandra, il Risano, il Dragogna e il Quieto, mentre su quello orientale l’Arsa. Il Quieto, lungo 53 km, sorge nei pressi di Pinguente e sfocia nel Mare Adriatico, nelle vicinanze di Cittanova d’Istria.
Lungo la costa prevale un clima tipicamente mediterraneo, mentre verso l’entroterra diviene sempre più continentale per l’influsso dell’aria fredda proveniente dalle Alpi Giulie e dalle montagne circostanti. Le estati si presentano lunghe e asciutte, mentre gli inverni sono miti, con rare nevicate.
I venti caratteristici sono la Bora, lo Scirocco e il Maestrale. La Bora soffia da nord verso sud recando un tempo asciutto e sereno; lo Scirocco, vento caldo, porta pioggia, mentre il Maestrale soffia d’estate dal mare verso la terraferma.

Dall’adesione della Slovenia all’Unione europea sono stati aboliti i controlli frontalieri tra Italia e Slovenia, rendendo la porzione settentrionale dell’Istria uno spazio senza barriere di confine. Il 1º luglio 2013 la Croazia ha aderito all’Unione europea, ma non rientra ancora nella zona Schengen, per cui permangono controlli alle frontiere. Nell’Istria italiana e nell’Istria slovena si usano gli euro; invece nell’Istria croata si usano le kune.
L’Istria resta legata per motivi storici, geografici e culturali al Friuli-Venezia Giulia e al Veneto. Le due regioni italiane prevedono nei propri bilanci dei capitolati di spesa a sostegno della minoranza italiana per il mantenimento delle memorie storiche istro-venete.
 
 

Nomi delle località dell’Istria in italiano, sloveno o croato
(in ordine alfabetico):

Abbazia / Opatija
Abrega / Vabriga
Acquaviva dei Vena / Rakitovec
Albaro Vescovà / Škofije
Albona / Labin
Albuciano / Kaštelir
Altura / Valtura
Antenale / Antenal
Antignana / Tinjan
Antignano d’Istria / Tinjan
Apriano / Veprinac
Aquaro / Potok
Aquilinia / Žavlje
Arsia / Raša
Bàbici di Maresego / Babiči
Badòs / Bados
Bagnoli della Rosandra / Boljunec
Baldassi / Baldaši
Baratro di Canfanaro / Barat
Baratro di Visignano / Barat
Barbana / Barban
Barbariga / Barbariga
Baredine di Buie / Baredine
Bassania / Bašanija
Becca / Beka
Bellai / Belaj
Bercenigla / Bercenigla
Berda di Sovignacco / Sovinjska Brda
Bergozza / Brgudac
Bergut / Brgud
Bersezio / Brseč
Bertocchi / Bertoki
Bertozzi / Brtoši
Besovizza / Bezovica
Bibali / Bibali
Bogliuno / Bolj un
Borutto / Borut
Bossamarin / Bošamarin
Boste / Boršt
Bottonega / Butoniga
Bresca / Brežca
Bresenza del Taiano / Presnica
Bresovizza / Brezovica pri Gradinu
Briani / Brdo
Brioni / Brij un
Buie d’Istria / Buje
Businia / Bužinija
Bùttari / Butari
Cadun / Kadun
Caldania / Kaldanija
Caldier / Kaldir
Campi d’Altura / Valturške Njive
Canale d’Arsa / Zaljev Raša
Canal di Leme / Limski zaljev
Canfanaro / Kanfanar
Capodistria / Koper
Carbocici / Krbavčiči
Carcase / Krkavče
Caresana / Mačkovlje
Carlisburgo / Zburgo
Carnizza / Krnica
Carnizza d’Arsa / Krnica
Caroiba del Subiente / Karojba
Carpano / Krapan
Carpignano / Karpinjan
Carsette / Karšete
Casali Sumberesi / Šumber
Castagna / Kostanjevica
Castagna / Kostanjica
Castelbianco / Bielograd
Castelli / Kastelec
Castellier di Visinada / Kaštelir
Castelnero / Črnograd
Castelnuovo d’Arsa / Rakalj
Castelnuovo d’Istria / Podgrad
Castelvenere / Kaštel
Castelverde / Grdo selo
Cattunari di Piscine / Katunari
Cattunari di Valle / Donji Katunari
Cattuni di Bogliuno / Katun
Cattuni di Cosliacco / Katun
Cattuni di Gallignana / Katun Gračanski
Cattuni di Lindaro / Katun Lindarski
Cattuni di Mompaderno / Katun
Cattuni di Sumberg / Katun
Catun di Castelverde / Katun
Cavrano / Kavran
Centora / Centur
Ceppi di Sterna / Čepić
Cerclada / Črklada
Cere / Cere
Cerei / Cerej
Ceresgnevizza / Čeresnjevica
Cerion / Cerion
Cernizza Pinguentina / Črnica
Cernotti / Črnotiče
Cerreto / Cerovlje
Cervera / Črvar
Cesari / Čežarji
Cherbune / Krbune
Chercus / Krkus
Chersano / Kršan
Chersicla / Kršikla
Chervoi / Hrvoji
Chiampore / Campore
Cirites / Zakno
Cissa / ?
Cittanova / Novigrad
Clenosciacco / Klenovščak
Collabo / Brda
Colmo / Hum
Coreni / Korenići
Corridico / Kringa
Corte d’Isola / Korte
Corte (nei pressi di Valmorasa) / Dvori
Cosina / Kozina
Cosliacco / Kozljak
Costabona / Kostabona
Covedo / Kubed
Crassizza / Krasica
Crevatini / Hrvatini
Cristoglie / Hrastovlje
Crocera di Montetoso / Križišče
Cropignaco / Kropinjak
Cuberton / Kuberton
Cucibreg / Kučibreg
Daila / Dajla
Danne / Dane
Dignano / Vodnjan
Dolegna / Dolenja vas
Draga di Santa Marina / Moščenička draga
Draga o Dosso di Laurana / Lovranska draga
Draga Sant’Elia / Draga
Draguccio / Draguč
Duecastelli / Dvigrad
Duori / Dvori
Elleri / Jelarji
Erpelle / Hrpelje
Farnei / Frnej
Fasana / Fažana
Felicia / Čepić
Ferenzi / Ferenci
Fianona / Plomin
Figarola / Smokvica
Figarola di Dragogna / Fijeroga
Filippano / Filipana
Fontane / Funtana
Foscolino / Fuškulin
Frassineto / Jesenovica
Fratta / Preseka
Gabrovizza d’Istria / Gabrovica
Gallesano / Galižana
Gallignana / Gračišće
Gallovici / Golovik
Gambozzi / Gamboci
Gasòn / Gažon
Gelovizza / Jelovice
Geme / Glem
Geroldia / Gradina
Giadreschi / Jadreški
Gimino / Žminj
Giubba / Djuba
Giurizzani / Juricani
Giussici / Jušiči
Golazzo / Golac
Golzana Vecchia / Stari Gočan
Goregna / Gorenja vas
Gracischie / Gračišče
Gràdena / Gradinja
Gradigne / Gradinje
Gradigne / Gradinje
Gradischie di Castelnuovo / Gradišče
Gregori / Gregoriči
Grimalda / Grimalda
Grisignana / Grožnjan
Grobenico / Grobnik
Ica / Ika
Icici / Ičići
Ieseni / Ježenj
Iessenoviza / Jesenovik
Isola d’Istria / Izola
Laghini / Laginji
Lanischie / Lanišče
Laura / Labor
Laurana / Lovran
Lavarigo / Loborika
Lazzaretto / Lazaret
Lazzaretto del Risano / Lazaret
Lesischine / Lesišćina
Letai / Letaj
Levade / Levade
Lindàro / Lindar
Lisignano / Ližnjan
Lonche / Loka
Loparo / Lopar
Loreto / Loret
Lozzari / Lozari
Lupogliano / Lupoglav
Madonna del Carso / Marija na krasu
Madonna del lago / Kloštar
Mallo / Maljia
Manzano / Manžan
Marcenigla / Marčenigla
Marcossina / Markovščina
Maresego / Marezige
Marusici / Marušiči
Marzana / Marčana
Matterada / Materada
Matteria / Materija
Mattuglie / Matulji
Medea / Medveja
Medolino / Medulin
Medrosani / Modrušani
Merischie / Merišče
Milino / Mlun
Moccò / Sabrežec
Momarano / Mutvoran
Momiano / Momjan
Moncalvo di Pisino / Gologorica
Moncodogno / Monkodonja
Mondellebotte / Bačva
Monghebbo / Mugeba
Monsalice / Mušaleć
Monspinoso / Dracevaz
Monte di Capodistria / Šmarje
Monte Ursino / Vrčin
Montecroce di Gimino / Krajcar breg
Montelino di San Vitale / Medelin
Monte Maggiore / Učka
Monte Sermino / Srmin
Montemillotti / Milotič breg
Monterosso / Crveni vrh
Monticchio Polesano / Montić
Montignano / Montinjan
Montona / Motovun
Montreo / Muntrilj
Montrino / Montrin
Morgani / Mrgani
Morno / Murine
Moschiena / Moščeniée
Muggia / Milje
Mune / Mune
Musil / Mužilj
Naserze / Nasirec
Nesazio / Visače
Nigrignano / Gradina
Noghere / Oreh
Novacco di Montona / Novaki motovunski
Novacco di Pisino / Novaki pazinski
Nugla / Nugla
Obrovo S. Maria / Obrov
Occisla / Ocizla
Ocretti / Okreti
Olmeto di Bogliuno / Brest pod Učkom
Olmeto di Pinguente / Brest
Omoschizze / Omošcice
Orsera / Vrsar
Oscurus / Oskoruš
Ospo / Osp
Pàdena / Padna
Parenzo / Poreč
Passiaco / Pasjak
Passo / Paz
Paugnano / Pomjan
Pèdena / Pičan
Permani / Permani
Peroi / Peroj
Petrigna / Petrinje
Petrovia / Petrovija
Piedalbona / Podlabin
Piedimonte del Taiano / Podgorje
Piemonte d’Istria / Završje
Pietra Pelosa / Kaštel
Pietrabianca / Beli kamen
Pinguente / Buzet
Pirano / Piran
Pisino / Pazin
Pisinvecchio / Stari Pazin
Plavia Monte d’Oro / Plavje
Pobeghi / Pobegi
Podgace / Podgače
Pogliane di Castelnuovo / Poljane pri Podgradu
Pola / Pula
Polie di Rozzo / Ročko Polje
Pomer / Pomer
Ponte Portòn / Ponte Portòn
Popecchio / Podpeč
Popetra / Popetre
Porgnana / Prnjani
Porto Albona / Rabac
Porto Quieto / Luka Mirna
Portole / Oprtalj
Portorose / Portorož
Potocco / Potok
Praporchie / Praproče
Prapozze / Praproče pod Podpeč
Prebenico / Prebeneg
Pregara / Pregara
Prelocca / Predloka
Previs / Previž
Pribetici / Antonci
Promontore / Premantura
Punta / Punta
Puzzole / Puče
Quieto / Mirna
Rabuiese / Rabujez
Raccotole di Montona / Rakotole
Racla / Račja vas
Racizze / Račice
Racizze di Castelnuovo / Račice
Rappavel / Rapavel
Raspo / Rašpor
Risano / Rižana
Riva di Moschiena / Kraj
Rojal / Jural
Rosario di Visinada / Ružar
Rosaria / Rožar
Roveria / Juršići
Rovigno / Rovinj
Rozzo / Roč
Ruccavazzo / Rukavac
Rupa / Rupa
Santa Lucia di Pirano / Lucija (o semplicemente Lucia)
S. Antonio in Carso / Sv. Anton
S. Barbara / Korošci
S. Bartolomeo / Sv. Jerneia
S. Bartolomeo di Montona / Sveti Bartol
S. Brigida / Sv. Brida
S. Canziano / Škocjan
S. Caterina / Katarina
S. Colombano / Sv. Kolomban
S. Cristoforo /
S. Croce di Pinguente / Sv. Križ
S. Dionisio / Sv. Dionizij
S. Domenica d’Albona / Nedešcina
S. Donato / Sv. Donat
S. Dorligo della Valle / Dolina
S. Elena di Pinguente / Sv. Jelena
S. Elena di Portole / Sv. Jelena
S. Floriano / Sv. Florjan
S. Floriano del Carso / Sv. Florijan
S. Giorgio al Quieto / Sv. Juraj
S. Giorgio di Piemonte / Sv. Juraj
S. Giovanni d’Arsa / Cvitići
S. Giovanni della Cornea / Sv. Ivan kornetski
S. Giovanni in Carso / Sv. Ivan
S. Giuseppe della Chiusa / Ricmanje
S. Leonardo di Portole / Sv. Leonardo
S. Lorenzo di Daila / Lovrečica
S. Lucia di Portole / Sv. Lučija
S. Marina d’Albona / Sv. Marina
S. Martino d’Arsa / Posert
S. Martino pinguentino / Martin
S. Michele / Miheli
S. Michele (Muggia) / Sv. Mihel
S. Michele in Monte / Gortanov Breg
S. Nicolò d’Oltra / Valdoltra
S. Onofrio / Sv. Onofrij
S. Pelagio di Piemonte / Sv. Pelagij
S. Pellegrino / Pelegrin
S. Pietro / Sv. Petar
S. Pietro dell’Amata / Raven
S. Pietro di Madrasso / Klanec pri Kozini
S. Pietro di Montrino / Fratrija
S. Pietro di Piemonte / Sv. Petar
S. Pietro di Salvore / Sv. Petar
S. Pietro in Sorbar / Sv. Petar
S. Quirico / Socerga
S. Rocco / Sv. Rok
S. Sergio / Črni Kal
S. Silvestro di Portole / Sv. Silvestar
S. Sòline / Sv. Solin
S. Stefano al Quieto / Gradaz
S. Tomà / Sv. Tomaz
S. Vitale di Visignano / Vital
Salise / Salež
Salvore / Savudrija
San Giovanni della Cisterna / Kaštel
San Lorenzo del Pasenatico / Lovreć
San Lorenzo del Rosandra / Jezero
San Michele di Leme / Kloštar
San Michele Sotto Terra / Sv. Mihel pod Zemlja
San Pancrazio di Montona / Brkać
San Pietro in Selve / Sv. Petar u Šumi
San Servolo / Sočerb
San Vito di Umago / Vid
Sanigrado / Zanigrad
Sant’Antonio di Capodistria / Sv. Anton
Sant’Antonio in Bosco / Boršt
Santa Domenica di Visinada / Labinci
Santa Maria del Campo / Bozje polje
Sanvincenti / Svetvinčenat
Sappiane / Šapiane
Saredo / Sared
Sarezzo / Zarečje
Sasseto / Zazid
Sbandati / Šbandaj
Scandaussina / Skadanščina
Scattari / Škatari
Schitazza / Skitaća
Scopliaco / Skopljak
Seghetto / Seget
Segnacco / Senj
Seiane / Zejane
Semedella / Semedela
Semi / Semič
Sergassi / Srgaši
Sezza / Seča
Siana / Šijana
Sicciole / Sečovlje
Sichici / Sikići
Silun Mont’Aquila / Slum
Sipar / Sipar
Sissano / Šišan
Sorbàr / Sorbar
Sossi / Soški
Sovignacco / Sovinjak
Sovischine / Soviština
Staràda / Starod
Sterna / Sterna
Sterpeto / Štrped
Stignano / Stinjan
Strana / Strana
Stridone / Zrenj
Strugnano / Strunjan
Subiente / Subjente
Suonecchia / Zvoneče
Terme di Santo Stefano / Istarske Toplice
Tersecco / Trsek
Terstenico / Trstenik
Terviso / Trviž
Tibole / Tibole
Tizzano / Tičan
Toppolo in Belvedere / Topolovec
Torre / Tar
Trebesse / Trebese
Tribano di Buie / Triban
Truscolo di Paugnano / Truške
Tubliano / Tublje
Tupliaco / Tupljak
Umago / Umag
Valaron / Valaron
Valcarino / Valkarin
Valdarsa / Šušnjevica
Valdibecco / Valdebek
Valfontane / Valfontane
Valizza / Valica
Valle / Bale
Valmorasa / Movraž
Vanganello / Vanganel
Varvari / Vrvari
Vergnacco / Vrnjak
Vermo / Beram
Verteneglio / Brtonigla
Veruda / Veruda
Vestre / Veštar
Vetta / Vrh
Vettua S. Martino / Martinski
Villa Crasca / Malakrasa
Villa Decani / Dekani
Villa Questi / Villa Kvešti
Villa di Rovigno / Rovinjsko selo
Villa Padova / Kaščerga
Villa San Marco / Markovac
Villadolo / Dol
Villania / Vilanija
Villanova al Leme / Selina
Villanova d’Arsa / Nova vas
Villanova del Quieto / Novavas
Villanova di Parenzo / Nova vas
Villanova di Pirano / Novavas
Vines / Vinež
Visignano / Višnjan
Visinada / Vižinada
Vodizze / Vodice
Volosca / Volosko
Vosilla / Vozilići
Vragna / Vranja
Vragnasella / Vranja selo
Zacchigni / Cakinji
Zamasco / Zamask
Zambrattìa / Zambratija
Zindis / Zindis
Zugni / Cunj

Fonti: Dario Alberi, Istria Storia Arte e Cultura; Wikipedia