Medaglia per la “Posa della prima pietra del tempio di S. Antonio Taumaturgo” 4 ottobre 1828

 


Medaglia per la "Posa della prima pietra del tempio di S. Antonio Taumaturgo" 

4 ottobre 1828

Medaglia per la "Posa della prima pietra del tempio di S. AntonioTaumaturgo"

Diritto: Veduta prospettica del nuovo tempio secondo il disegno dell’ architetto Pietro Nobile, con bassorilievi nel timpano e statue sotto il pronao, ornamenti che per economia non vennero mai eseguiti.

Medaglia per la "Posa della prima pietra del tempio di S. AntonioTaumaturgo"

 

Rovescio: Su sette righe: LAPIDE AVSPICALI RITE POSITO AN . M • DCCC • XXVI TERGESTE
Diametro : mm. 57
metalli: oro, argento, rame, rame dorato.

Esemplare della collezione Giulio Bernardi

Medaglia per l’Apertura del Lazzaretto nuovo, detto di Santa Teresa, 1769


 

Trieste, 1769 – Medaglia per l’Apertura del Lazzaretto nuovo“, detto di Santa Teresa.

 

Medaglia per l' " Apertura del Lazzaretto nuovo ", detto di Santa Teresa.

Diritto: Busti di Maria Teresa e di Giuseppe II, suo figlio, di profilo, affrontati. L' imperatore sta a sinistra, con la testa laureata, in abito militare, col Toson d'oro sul petto; alla destra l' imperatrice - regina, sua madre, con diadema sul capo e velata per vedovanza.
In alto, le scritte:
 IOSEPHVS . II . M. TRERESIA . AVGG.
 Sotto, in piccolo, il nome dell' incisore : A. WIDEMAN.

 

Medaglia per l' " Apertura del Lazzaretto nuovo ", detto di Santa Teresa.

 

Rovescio: Pianta topografica del nuovo lazzaretto col suo porto e tre bastimenti, di cui due entro lo stesso, delimitato da moli. In alto, la scritta :
SECVRITATI PVBLICAE ET COMERCIO
Nell' esergo :
POS. TERGEST. 31 IVLY
II . D . CCLXIX

Realizzata in : oro, argento, rame, stagno.

(Collezione Giulio Bernardi; la descrizione è tratta da "Medaglie Triestine coniate" di Antonio Ciana)

Ruggero Berlam nell’architettura triestina


Ruggero Berlam nell’architettura triestina

 

Paolo Marini


Nato a Trieste il 20 settembre del 1854, Ruggero Berlam è l’esponente intermedio di una dinastia di costruttori che dalla metà del XIX secolo al primo quarantennio del Novecento impresse un sigillo ineguagliabile alla fisionomia architettonica e urbanistica della città: il padre Giovanni Andrea (1823-1892) era stato il primo ad introdurvi i modi di un revival stilistico (quello che genericamente si conosce col termine assai equivocabile di ‘eclettismo’) valido a riprendere su tutt’altro registro l’insegnamento dello storicismo neoclassico, mentre il figlio Arduino (1880-1946) ne avrebbe perpetuata la lezione temperandola con le istanze più fresche della modernità, oltre a distinguersi nel campo del grande arredo navale.
Dopo una prima formazione compiuta presso l’Accademia di Venezia (1871-74), Ruggero perfeziona gli studi nel triennio successivo nella milanese Accademia di Brera, sotto la guida di Camillo Boito, all’epoca il maggior teorico del rinnovamento architettonico italiano, il cui esempio (elaborare un linguaggio nuovo coll'”annodarsi a uno stile del passato” perdendone però “il carattere archeologico” e ispirandosi al temperamento “incontestabilmente italiano” dell’architettura lombarda o delle “maniere municipali del Trecento”) gli rimarrà imprescindibile fino al termine della carriera, pur allargando il raggio della rivisitazione stilistica ai modelli più maturi del Cinquecento o del Barocco, facilitato di suo da un talento grafico eccezionale. Vale sempre la pena ribadire la celebre osservazione di Pietro Sticotti secondo la quale “egli fece il pittore per tutta la vita, anche quando architettava”.
Fin dal principio il nostro ha modo di confrontarsi con progetti di largo impegno, tra i quali vanno segnalati quelli per la sede della Cassa di Risparmio locale, per il rifacimento – che immagina in accenti goticheggianti – della facciata del duomo goriziano e soprattutto per il secondo concorso internazionale del Vittoriano a Roma.
L’esordio fisico in città coincide con l’arricchimento di due ambiziose imprese paterne, tra 1878 e 1880. La casa all’attuale civico 24 della via Carducci, all’epoca accolta dagli applausi della critica, integra il prospetto con un entusiastico prontuario di soluzioni tardorinascimentali: sarebbe sufficiente citare le specchiature a graffito e la parte inferiore delle semicolonne giganti cinta da putti in carosello, ma è difficile tacere dei gruppi leonini chiamati a sostituire il fogliame in tutti i capitelli maggiori. Se, com’è prevedibile, patisce d’un eccesso di severità da parte della bibliografia più recente, le rimane, per consolazione, il primato della fantasia tra i prospetti che fanno ala a questa importante strada di scorrimento. Gli interventi su palazzo Hermanstorfer (via Battisti 6), dal canto loro, giocano sulla promiscuità contraddicendo l’archiacuto nelle aperture del pianterreno con stratagemmi chiaroscurali di stampo manierista nel comparto centrale (protomi di nuovo leonine per i mensoloni sfaccettati sotto il balconcino del secondo piano; ghirlande, rivestimenti embricati e testoni intorno alle quattro finestre mediane dello stesso).
In una decina d’anni (1884-1893), Ruggero sparge altrettante costruzioni sul colle di san Vito: quattro risultano commissionate dai Bazzoni. All’incirca come un segnale d’allarme trilla il villino al civico 4 della via omonima (1888); le munizioni cilindriche d’angolo e soprattutto gli slittamenti affannosi imposti agli strombi delle finestrelle toscaneggianti palesemente non sono estranei a trame caricaturali. Un anno dopo, comunque, eccolo riacquistare disciplina nella ferma impostazione volumetrica della villa Haggiconsta, ritirata in un parco sul viale Romolo Gessi. La redazione finale del progetto sfronda gli accenti fiabeschi del concepimento e affida al corpo occidentale l’intensificazione d’un torretta appena leggermente capricciosa, il cui modulo verrà ripreso di lì a una quindicina d’anni per i rinforzi del quinto caseggiato Aidinian in via dei Giustinelli.

Casa Leitenburg (1889) ha la perentorietà del capolavoro e il carisma del simbolo. Affermazione di piena consapevolezza artistica non meno che ideologica, è il reinvestimento definitivo del sempre presente auspicio boitiano nel contesto congenitamente ricettivo della città irredenta. Incunabolo locale di uno stile che Pietro Sticotti appellò ‘fiorentino’ ma che secondo l’analisi degli studiosi successivi si inclina a recepire suggerimenti da un più ampio circondario centroitalico, sospende l’incredulità e s’installa nell’indaffarato crocevia Giulia/Rossetti con felice voracia appropriativa. Tonante, piena di grazia e maestà, si fa forte di una deferenza mimetica personalissima che non incrinerebbe l’assetto di via de’ Tornabuoni a Firenze, Piazza Tolomei a Siena o Corso Vannucci a Perugia. Tutti i caratteri della famosa ‘maniera municipale’ agiscono a piena potenza spazzando via ogni imbarazzo: la sfida è decisamente vinta da questo palazzo ‘in stile’ tra i pochi a non avere il birignao e dove non si annusi la polvere dell’accademia. Le due fronti – più rappresentativa quella su via Giulia – accoppiano o isolano finestre architravate nel primo piano e a pieno centro nel secondo e terzo, ove sono rimarcate, di contro lo sfondo minuto del cotto, da estradossi a conci più larghi che le assecondano in un quasi impercettibile dirottamento archiacuto; la cimasa, infine, riceve la calda stesura dell’affresco e proietta degli sporti in legno a sostenere la rustica linea di gronda. I ferri battuti che scandiscono il prospetto in riccioli di disegno araldico sono richiamati nella affilata lucerna appesa allo spigolo, arieggiato più su dalla stupenda loggia a pianta pentagonale: questa si esalta nello stacco cromatico delle balaustre e del fusto in pietra bianca che illuminano il profilo della portafinestra, ancora distintamente affrescato a fiorami (e bianco sarebbe, a onor del vero, anche il partito di pietra svolto nei primi due livelli, ovvero fino all’altezza della loggia, se gli scarichi dei veicoli in traffico costante non l’avessero intriso con una spessa patina di nerofumo).
Un equilibrio mai eguagliato dalla miriade di imitatori o infatuati (fino al 1940 sorgeranno oltre duecento fabbricati in quest’ispirazione, specie nel distretto di Barriera Vecchia), ma nemmeno dallo stesso ideatore. Berlam ritenterà il colpo nel 1906, di nuovo sfruttando un incrocio, e questa volta oltremodo decentrato (vie Piccardi/dell’Eremo). Brachilineo cassettone asperso d’ingentilimenti sottili sottili, il palazzo scala la fronte secondaria sul dislivello di via dell’Eremo, ciò che comporta un effetto ponderale rovinoso, da piombo nelle ali, anche se questa stessa pesantezza, da un altro punto di vista, può trasformarsi nello spettacolo di una potenza selvaggia, espressivamente oltre la portata di tanti altri interventi architettonici del periodo. Ritorna l’incantamento e l’insegnamento specifico di Casa Leitenburg a disegnare un Medioevo più vero del vero, e le finiture poche volte sono state altrettanto intonate: le cartelle a saporite sfumature d’affresco sull’attico, il balcone foggiato alla veneziana, i listelli marmorei che striano in orizzontale la densità della massa, ecc.; malgrado tutto, qualcosa di importante si è perso, o non è riuscito a filtrare. Così, la ricchezza di concetti che aveva presieduto alla creazione del prototipo adesso si traduce in una spoglia senza dubbio evocativa, ma ormai vacua e scaricata, orfana del significato iniziale.
In rapporto al filone, quest’opera può dirsi la battuta d’arresto. Fino a questo momento (per non dire di quello seguente), comunque, le strade intraprese saranno quasi sempre costellate di riuscite, in una gamma di proposte, per giunta, sorprendentemente ampia; come se in effetti l’artista potesse operare in modo davvero proficuo solo a patto di praticare la differenziazione sistematica della cifra linguistica.
Tornando agli anni 1890, vediamo che lo spirito in qualche modo pacificato così come espresso nella villa Haggiconsta, fissa uno standard di eccellenza per il versante più classicista dello storicismo eclettico con un progetto a beneficio del Circolo Artistico di Trieste, consistente in un salone elevato sopra il caffè del Teatro Fenice e schermato da una facciata (via san Francesco) di aureo senso proporzionale, esemplare per nitidezza e semplicità. Sarà necessario attendere lo scadere del decennio perché il Berlam ripristini una analoga felicità d’ispirazione. Tornando all’isolato Leitenburg, eccolo quindi contrassegnarne il capo opposto, all’angolo con la via Piccolomini, col marchio di un caseggiato che Marco Pozzetto annoverava tra i più belli costruiti in città alla fine del secolo. Difficile dire, tra parentesi, se per l’apprezzamento delle sue linee il massiccio maquillage cui è stato sottoposto da poco sia meno nocivo dello scadimento cromatico e dell’immancabile annerimento da smog subiti in precedenza. Il palazzo (via Giulia 5) resta prodigo di sottigliezze. Al pianoterra, sfilata di arconi sorreggenti un’indovinatissima teoria di oculi circolari, per la cui valorizzazione è di rigore un mezzanino in sordina; piano nobile arbitro d’eleganza con finestre e portefinestre (tre i balconi) rimarcate dal cesello delle candelabre, non concesso invece alle aperture rettangolari nel livello superiore, che l’assenza di marcapiano rende compositivamente partecipi dello stesso settore; ripasso di ghiere intorno alle finestre dell’ultimo piano, siglato col grafismo erudito del cornicione rinascimentale.
Se anche a Trieste sono maturi i tempi per la fioritura del Liberty, il nostro si dichiara avverso alle sue novità. Le due villette edificate per i Modiano sulla via Rossetti (civici 77 e 79) provano ad adattarne qualche locuzione, ma l’esercizio appare svolto controvoglia. L’unica maniera, del resto, che Ruggero (almeno in ambito cittadino) trova per attuarlo con profitto è quella di contraddirne gli assunti saggiandone l’applicabilità al suo bagaglio storicista. Risultato, quella bizzarra creatura che è la casa al numero 36 di via Piccardi. Decorata in libertà, zeppa di consapevoli incongruenze (il derisorio parato floreale dalla qualità meno che scolastica, l’impiego dei mattoni a vista), sa chiaramente di truffa. Indicativo comunque dei suoi gusti e disgusti, sorta di confessione burlesca, anzi, il lavoro sarà rettificato nel palazzo adiacente sopra descritto (civico 38), non a caso senza troppa soluzione di continuità nella scelta dei materiali, per riaffermarne la correttezza d’uso.
Palazzo Vianello (1905) cerca la meraviglia a qualsiasi costo. Lo stentoreo manto orchestrale che lo affardella di obelischi, statue, concrezioni, applique e arzigogoli rasenta la perversione, segnando il punto di non ritorno nella ricerca ornamentale del nostro. Diamo atto che la costruzione non assomiglia da vicino a nessun’altra di quelle che l’hanno anticipata, così da non accusare alcun segno di stanchezza e vanificare la spinta a eventuali confronti. Per quanto ingombrante possa risultare, vive in effetti di personalità propria. I motivi della facciata fioccano con tutta l’energia possibile e distolgono l’attenzione dal repertorio profuso sugli altri lati, dove pure non mancano occasioni d’interesse: quasi sconosciuto, infatti, il fianco su via XXX Ottobre, sul quale si apre un portone stravagante per esubero di marmi, nel cui tettuccio due medaglioni dipinti con le effigi di Leonardo e Michelangelo alludono ancora una volta al ‘genio italico’. Sarà questa connotazione, insita nel barocchismo flamboyant del complesso, che la critica strumentalizzerà per contrapporlo ideologicamente all’ascetica proposta ‘jugend’ della Narodni Dom di Max Fabiani, edificata nello stesso momento quasi dirimpetto, prima che un’insulsa replica del Vianello venisse piazzata all’altro capo dello slargo, dirimendo in modo irrimediabile la vitalità del contrasto.
Nel biennio 1903-1905, Ruggero, avvalendosi per la prima volta della collaborazione del figlio Arduino, architetta su commissione del maggiorente armeno Giorgio Aidinian una vera e propria cittadella, sfruttando una balza del colle di san Vito. Sfugge la leggerezza di battezzarlo appunto ‘quartiere armeno’, questo paraggio residenziale che nel ricordo e persino alla visione diretta trascolora in un esotismo Romantico col quale in realtà non ha niente da spartire. L’insieme, sincretico, è articolato in cinque blocchi. Come si presenta? Il primo lotto (via Giustinelli 3) sta appresso la già esistente chiesetta dei Mechitaristi. Procurando di non rubarle la scena, inventa a tergo un prospetto, aperto sul pendio, con bifora centrale entro arcone a sesto pieno sovrastato dal cornicione su cui siede una coppia di sentinelle leonine, il tutto concluso da un fastigio mistilineo; la seconda casa (civici 2 e 4 della stessa via), impersonale, si presta come complemento volumetrico; lungo la sottostante via Benedetto Marcello s’inerpicano due palazzi gemelli, temporaleschi nella loro progressione di bifore ‘in maggiore’ – il marcapiano degli attici, fittamente dentellato, prevede il rinforzo di mensole scalate e colonnine che insistono a loro volta su mascheroni in rictus. Troneggia per finire (via Giustinelli 5) un casamento fiero delle sue astruse torrette angolari: lo si scorge da più e più zone della città.
Il permanente rispetto del dettato boitiano (torna la propensione ‘medievalista’ nelle case gemelle) e il vincolo della citazione (il manierismo del Sanmicheli e dell’Alessi – palazzo Marino a Milano – rivisitato dall’edificio-fortezza) non inibiscano l’ammirazione, ché sono proprio questi a permettere lo sfogo di umori insospettati: una reverie pseudoepica, nella cui concertazione al portamento guerresco si aggiunge una sottolineatura iniziatica, quando non deliberatamente sinistra.
Se un simile effetto non si attiva con la Scala dei Giganti (1907), la colpa va addossata unicamente alla funzione urbanistica che il manufatto deve assolvere: saldare cioè il colle di san Giusto con lo snodo viario cruciale della Città Nuova (piazza Goldoni). Le rampe ammantano il traforo, e il frastuono, della Galleria Sandrinelli, sacrificando giocoforza le loro risorse poetiche, d’indubbia originalità; una vigorosa stimolazione ancora una volta neomanieristica modella il progetto su connotati vagamente antropomorfi.
Entro la Prima Guerra Mondiale, i Berlam – adesso associati a tutti gli effetti – firmano la maturazione del loro programma comune con due imprese che s’impongono a consuntivo e superamento di un’intera concezione estetica.
Inaugurato nel 1912, dopo un avvicendarsi di traversie burocratiche non poco ambigue, il Tempio Israelitico di Trieste ha fama di essere il più grande d’Europa. Vero o no, qua importa evidenziare che si tratta dell’architettura meno neo-qualcosa compiuta in città da oltre un secolo in quella parte (escludendo le realizzazioni liberty degne di essere definite tali, beninteso). Le deduzioni storiche sono riassorbite in un discorso finalmente autonomo dall’ ‘eclettismo’ come professione di fede, che anzi si vede convertire metaforicamente da Bibbia a vocabolario. I prestiti stilistici – a maggior ragione dotti e abbondanti come mai erano stati nelle edificazioni eclettiche del posto – ora valgono quali ideali medaglie al merito, esautorati dal ruolo di motivazione portante grazie alla quale (e a nient’altro) l’architettura poteva considerarsi degna d’essere praticata o dichiarare un senso.
Per scrupolo d’inventario ne vanno perciò citate le soluzioni decorative, dalla stella di David estrapolata a rosone (lato su piazza Giotti) al fermento elettrizzante del portale maggiore, dal dado merlato sullo spigolo del modulo principale, alla proiezione dell’organismo absidale nel lato su via Zanetti (memore dei modi normanni nella Palermo di Ruggero II) fino al paramento policromo per la parte interna dello stesso, designato a esaltare l’Arca Santa tra il nero marmoreo dell’emiciclo e la calotta indorata. Presumibilmente per volere di Arduino, domina e impone all’edificio il suo vero carattere una norma progettuale fondata sull’articolazione monumentale dei puri volumi.
La sede per la Riunione Adriatica di Sicurtà (tra 1911 e 1914) è davvero un imponente sforzo corale. La regia dei Berlam, infatti, spartisce, la riuscita con le maestranze all’opera nel completamento scultoreo e accessorio. Va ammesso che almeno in parte quest’ultimo non gioca a favore dell’impresa: mentre il Palazzo Vianello accettava come necessità strutturale l’apparato di Gianni Marin, ora le sculture in facciata (piazza della Repubblica), dovute allo stesso autore, cui si affianca Giovanni Mayer, sembrano messe là per dovere d’ufficio. Convenzionalità tuttavia riscattata dal lavoro di Domenico Calligaris, ‘mago’ del ferro battuto cui spetta il corredo d’inferriate che schermano le finestre su tre lati del pianoterra, oltre alla regale cancellata in bronzo e gli ingabbiamenti delle colonne all’ingresso sulla piazza. Questa griglia d’ammirevole artigianato prelude allo spettacolo che Ruggero teatralizza superbamente con l’imbotte trapuntata di stucchi puro Rinascimento, l’alternarsi del bianco e rosa per il marmo delle colonne nel vestibolo avanti fino alla quinta sgargiante del disegno per la fontana del Gladiatore, nella cui realizzazione il Marin riprende la sua vena migliore seducendo con la variopinta sinfonia del bronzo dorato, il rosso di Verona per i leoni e il bianco di Carrara per l’anatomia dell’eroe. Su per lo scalone d’onore (parapetto con dischi a traforo, scudi in bronzo alle pareti, soffio di stucchi sui soffitti) e gli ambienti di rappresentanza prosegue incessante la ricerca cromatica e formale, magnifica in tutti i particolari, come ininterrotto si svolge il fraseggio chiaroscurale su tutti e quattro i lati del palazzo, a mo’ di parata, nel candore della pietra d’Aurisina, e con un gusto della grandeur attribuibile in tutto alla mano di Ruggero, per quanto il figlio non si esenti dall’alleggerirne il tono col freschissimo tassellato degli accessi secondari (vie santa Caterina e Dante Alighieri). Rispetto all’emancipazione tanto vistosa manifestata nel Tempio per la comunità ebraica, l’edificio in esame attesta un ritorno a posizioni decisamente più conservatrici. In ciò non è obbligatorio riconoscere una regressione della tempra inventiva da parte dei Berlam, ma piuttosto – soprattutto per quel che attiene a Ruggero – un monito esplicito e vagamente malinconico a non dimenticare, sull’orlo di una rivoluzione assoluta tanto per la storia quanto per l’arte, ciò che in passato è stato utile a costruire l’immagine della grandezza e dell’impulso ottimista di una città per molti versi unica.

(P.M.)

Muggia


Muggia

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Muggia, Muja in dialetto triestino, è un comune della provincia di Trieste con 13.140 abitanti, il comune più a sud della regione Friuli-Venezia Giulia, confinate con la Slovenia.
La popolazione è quasi per la sua totalità di madrelingua italiana. La minoranza slovena è concentrata soprattutto nella zona di Rabuiese-Vignano/Rabujez-Vinjan, Belpoggio/Beloglav e nella frazione di Santa Barbara/Korošci. Le origini di Muggia sono protostoriche (età del ferro, VIII-VI secolo a.C.), con l’insediamento dei castellieri. Dopo la fondazione di Aquileia, nel 181 a.C., il territorio subì la conquista Romana e Muggia divenne colonia, Castrum Muglae, presidio a difesa delle incursioni degli Istri e degli Avari. Alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, Muggia subì le dominazioni dei Goti, dei Longobardi, dei Bizantini e dei Franchi. Nel 931 i re d’Italia Ugo e Lotario la cedettero al Patriarcato di Aquileia. Nel 1420 passò alla Repubblica di Venezia e progressivamente gli abitanti dei colli circostanti si trasferirono sulla riva del mare, nel “Borgo Lauro”, dove tutt’oggi è concentrata la cittadina. Con il dissolversi della Repubblica di Venezia (1797) e il decennio di conquista napoleonica (1805-1814), Muggia passò sotto il dominio asburgico, sviluppando una considerevole industria cantieristica navale, che continuerà la sua attività fino alla seconda metà del XX secolo, quando le nuove strategie produttive la resero poco competitiva. Nell’Ottocento il dialetto muglisano, dialetto di tipo istro-veneto che per lungo tempo convisse con l’attuale muggesano, si estinse. Alla fine della prima guerra mondiale il territorio di Muggia passò al Regno d’Italia. Nel 1923 il comune di Muggia cedette la frazione di Albaro Vescovà e parte della frazione di Valle Oltra al comune di Capodistria. Dopo l’8 settembre 1943 il territorio passò sotto l’amministrazione tedesca diventando parte dell’Adriatisches Küstenland. A seguito del trattato di pace del 1947 e delle definitive rettifiche territoriali previste dal Memorandum di Londra del 1954, Muggia dovette cedere alla Jugoslavia, Barisoni (Barizoni) Bosini (Bosinj) San Colombano (Kolomban) Crevatini (Hrvatini) Elleri (Elerji) Faiti (Fajti) Plavia Monte d’Oro (Plavje) Premanzano (Premančan) Punta Grossa (Debeli Rtič) e nuovamente Albaro Vescovà (Škofije) – più di 10 km² con 3.500 abitanti, quasi la metà del suo territorio. Il 10 novembre 1975 venne firmato il trattato di Osimo che sancì gli accordi riguardo i confini. Oggi la cittadina di Muggia poggia la sua economia sul turismo e sul commercio. Sull’antico colle di Muggia Vecchia, si trova l’antica chiesa dedicata a Maria Assunta, eretta su una precedente del VIII o IX secolo, della quale si conservano alcuni elementi sopravvissuti al rifacimento avvenuto nel secolo XIII: l’ambone, il leggio e due grandi pilastri, a destra ed a sinistra dell’ingresso. Vicino alla chiesa è stato realizzato un Parco archeologico (Castrum Muglae), dove sono venuti alla luce resti di un borgo medievale: una strada con cinta muraria, l’officina di un fabbro e diverse abitazioni private, una di queste conserva resti del piano superiore e della scala d’accesso.

Trieste – La Civitas


La Civitas

Giulio Bernardi

Civitas, nella terminologia latina, è una società di uomini liberi, organizzata a difesa in un singolo agglomerato urbano e ricavante i mezzi di sussistenza dal breve contado circonvicino.
Nelle prime monete triestine si nomina soltanto il vescovo: TRIES E PISCOP, come ad Aquileia soltanto il patriarca : AQUILEGIA.P. 
L’uso del nome TRIESE, che, osservando bene la forma dell’ultima E, può essere letto TRIESTE, prima dell’adozione del latineggiante TERGESTVM, è documentato da queste antiche monete e forse da poche altre fonti. Secondo A. Tamaro il «Chronicum Venetum», che è del X o dell’XI secolo, porta la forma neolatina cioè italiana di TRIESTE, in una carta del 1106 si legge IN EPISCOPATO TRIESTINO, nell’anno 1115 compare il nome di persona TRIESTO e Santa Maria de TRIESTO è detta l’ «ecclesia maior» un atto del 1172.
In epoca romana il nome della città, come si legge nelle lapidi, fu sempre TERGESTE indeclinabile.
Nelle monete immediatamente successive alle prime, viene nominata anche la CIVITAS TRIESTE, parallelamente alla comparsa sulle monete patriarcali dell’iscrizione CIVITAS AQUILEGIA. Non succede così nella vicina Gorizia, dove il nome della città è legato solo al titolo del COMES e al nome di Lienz, né a Latisana, designata come PORTUM. A Lubiana il nome della città definisce invece i denari: LEIBACENSES DE, ma esistono anche esemplari con CIVITAS LEIBACVN. Venezia non è mai Civitas nelle sue monete: il nome della città è sempre predicato del titolo dogale.
La CIVITAS è ricordata dalle monete aquileiesi fino al 1256, cioè per l’ultima volta nelle monete di Gregorio con il titolo di Electus, prima della sua consacrazione episcopale. A Trieste, invece, l’uso continua ancora all’epoca del vescovo Ulvino de Portis (1282-1285), mentre non c’ è più nei denari di Rodolfo (1302-1320), che si fregia del titolo di TERGESTINUS, come AQUILEGENSIS si nomava il Patriarca fin dall’epoca di Raimondo (1273-1298). Quale significato ha il riconoscimento, contemporaneo alla corte patriarcale e nella curia triestina, dell’esistenza della rispettiva CIVITAS? Quale la permanenza di questo riconoscimento a Trieste più a lungo che in Aquileia? Innanzitutto è prova della stretta interdipendenza iniziale tra le due monetazioni, ma nel contempo mostra che Arlongo vescovo di Trieste dal 1254 al 1280 eredita, dal periodo di coniazione comunale, una regia monetaria più autonoma, meno strettamente legata alla patriarcale. In secondo luogo testimonia la considerazione del Patriarca e del Vescovo per l’insieme dei cittadini, dei quali è presupposto in tal modo il consenso, anche nell’iniziativa monetaria che pure era, come abbiamo visto, finalizzata anzitutto ali’ accrescimento delle risorse finanziarie del sovrano.
Qui occorre una nota di carattere filologico, che andrebbe sviluppata in altra sede. Con una frequenza tale da non permettere di pensare che sia frutto di errore, il nome di Trieste è scritto, sulle monete dei tempi più antichi: ATRIESE. Atria, da cui il mare Adriatico, è una parola che deriva da atrium, che significava in dialetto italico un luogo ove si spandevano le acque, cosicché ATRIA veniva ad indicare la città di fondazione tusca che si trovava alle foci del Po. ATRIESE potrebbe essere espressione del desiderio di legare il nome di Trieste al nome del mare Adriatico, producendo anche nell’etimo un’affermazione d’italianità d’origine che pare si sentisse necessaria già nel 1200.

I Podestà istriani


I Podestà istriani

 

Giulio Bernardi

 

Ad onta degli screzi, che spesso nascevano, l’esser sede vescovile era considerato un onore e un fattore di potenza. Infatti Capodistria, da due secoli priva di un proprio antistite e riunita alla diocesi di Trieste, impetrò nel 1186 il ripristinamento del suo vescovado, e lo dotò del reddito di cinquecento vigne e d’altri fondi rustici e con la decima dell’olio. In quest’occasione ci si presenta il primo podestà istriano, con tre consoli. Autonomia sufficiente a fare patti direttamente con Venezia era stata conquistata già nel 1150 da Cittanova, Rovigno, Parenzo, Umago e Pola, retta da una balìa di nobili.
Nel 1192 il regime podestarile e consolare appare anche a Pirano, indi lo ritroviamo a Pola (1199), mentre Parenzo ha ancora un gastaldo con tre rettori. 
Trieste continua ad avere gastaldi per tutto il secolo: il Ripaldo del 1139 ricompare dopo tredici anni, e un Vitale è gastaldo nel 1184 e figura di nuovo tra coloro che giurano fedeltà a Enrico Dandolo, a nome di Trieste nel 1202. E anche nel duecento si notano gastaldi, Mauro (1233 e 1237) ed Ernesto (1257). 

Trieste – Sigillo comunale del 1369


Trieste – Sigillo comunale del 1369

Giulio Bernardi

Disegno tratto dall'impronta del sigillo comunale del 1369 e dai due tipari conservati al Museo di Trieste.

Disegno tratto dall'impronta del sigillo comunale del 1369 e dai due tipari conservati al Museo di Trieste

 

Questo sigillo appare per la prima volta a stampa nell’ «Historia di Trieste» del Padre Ireneo della Croce del 1698 in quella forma che ci è stata tramandata nei due tipari conservati nei Civici Musei che (Kandler?) giudica «di fattura moderna».
Non ho mai trovato un documento antico con l’impronta di questi suggelli, tanto che dubito fossero mai stati usati dal Comune di Trieste in senso proprio. Forse si tratta di copie fatte per essere tramandate, all’epoca (1516) in cui il sigillo triestino fu ricreato, con lo stemma dell’alabarda in campo fasciato, sormontata dall’aquila bicipite.

Impronta del sigillo del Comune di Trieste su un documento del 1369

Impronta del sigillo del Comune di Trieste su un documento del 1369

 

Ho avuto occasione di vedere un’impronta dell’anno 1369 ma il sigillo è di fattura assai differente.

Trieste – Affermazione del Comune


Trieste – Affermazione del Comune

Giulio Bernardi


Precipuo carattere di rappresentante della «civitas», anzi già del «commune Tergestine civitatis», ha quel gastaldo di Trieste che incontriamo nel lòdo arbitrale pronunciato da Ditmaro, vescovo di Trieste, per la lite fra il comune di Trieste e Dieltamo (sic), signore di Duino nell’ anno 1139.
Tra le varie signorie formatesi dopo il mille in Istria e nella Carsia è notevole quella dei Duinati che dalla loro rocca dominavano la via litoranea. Molesta riusciva ai triestini quella rocca tedesca appollaiata come un falco e croniche furono le contese di confine. Il Comune e il signore di Duino, che si accusavano a vicenda di turbazioni di possesso, si accordarono infine di rivolgersi a Ditmaro. La città aveva quale procuratore il gastaldo Ripaldo, assistito da dodici «boni homines», i quali provarono con giuramento che tutte le terre dalla strada carreggiabile al mare, tra Sistiana e Longera, erano «possessio communitatis Tergestine civitatis». Le parti contendenti s’impegnarono a rispettare questa linea di confine, e il vescovo «posuit inter eos» la penale di cinque lire d’oro. In questo importantissimo lòdo ricorre per la prima volta il nome di «commune Tergestine civitatis». Szombathely richiama particolare attenzione sulla distinzione tra «civitas» e «commune». Questo appare come parte, avente una sua personalità, e investe di piena rappresentanza un suo procuratore: vanta diritto di proprietà sul territorio che è limitato dalla via pubblica tra Sistiana e Longera, e poi dalla catena dei monti Vena e dal mare. Non si tratta della zona di signoria del vescovo, ristretta a un cerchio di tre miglia di raggio, ma proprio dei beni dei cittadini. Il lòdo prova dunque che agli inizi del secolo XII i cittadini hanno già costituito l’associazione volontaria giurata, onde è nato e s’evolve il nuovo ente, e che questo ha ottenuto il riconoscimento, almeno tacito, del vescovo. Esso è ancora infante, ma già pieno di promettente vigore; e già si delinea preciso il territorio del futuro piccolo stato sovrano, in perfetta corrispondenza con la dicitura del suggello trecentesco: SISTILIANU PUBLICA CASTILIR MARE CERTOS DAT MICHI FINES.

Trieste – Locopositi e Gastaldi


Trieste – Locopositi e Gastaldi

Giulio Bernardi

In un documento del 933, Trieste è rappresentata da un «locoposito», forse designato o eletto dal vescovo. Primo tra gli «scabini» (rappresentanti della cittadinanza), egli forse corrisponde al primate che appare di questi tempi nelle città dalmatiche, però sembra prevalere in lui il carattere di primo rappresentante cittadino. Nel corso del secolo XI, il locoposito perde via via la sua importanza e il titolo si riduce a una qualificazione onorifica ed ereditaria. In sua vece spunta, nel secolo XII, il gastaldo che poco ha a che fare con il gastaldo longobardo o franco, ma invece sembra assumere anche nelle città istriane il posto di primo ufficiale, come magistrato elettivo, facente parte del collegio dei giudici, cioè delle supreme cariche cittadine perpetuanti quelle del municipio romano.
A Trieste il gastaldo, preposto dal vescovo signore della «civitas», riuniva in sé ai poteri amministrativi e giudiziari conferitigli dal vescovo, che egli esercitava in qualità di agente, anche la rappresentanza dei cittadini. A seconda della sua maggiore o minore potenza, la «civitas» designava al vescovo la persona dell’ eleggendo e talvolta addirittura forse lo imponeva.

Trieste – Gli inizi del Comune


Trieste – Gli inizi del Comune

Giulio Bernardi

Torniamo al diploma di Lotario del 948. Esso segna una data importantissima nella storia, purtroppo lacunosa e oscura, della «civitas» triestina dell’alto medioevo. In pericolo d’esser travolti dal feudalesimo montante che li avrebbe aggregati a potenti principi d’oltralpe, i triestini si strinsero al loro vescovo, da loro stessi eletto e salutarono certo con gioia il privilegio che sottraeva la custodia delle mura, l’esazione delle imposte e dei dazi, l’amministrazione civile e la giudiziaria ad altro signore.
La vecchia classe degli «honorati», detti poi «boni homines et idonei» continua ad esercitare modeste funzioni amministrative, in posizione subalterna, ad esprimere dal suo seno i giudici di prima istanza nel civile, conservando e tramandando tenace il ricordo dell’antico municipio e della sua curia, le consuetudini, il sentimento di solidarietà economica e sociale. L’autorità vescovile non dava loro fastidio, finché il presule era eletto per lo più tra di loro o quantomeno con il loro concorso, ed essi avevano gran parte nel Capitolo e nella curia dei vassalli episcopali, finché, insomma, gli interessi e le persone del pastore, del clero e della classe dominante furono quasi i medesimi.
Ma pare che già Ricolfo (1007-1017) provenisse direttamente dalla chiesa di Eichstaett in Baviera e fosse investito dall’Imperatore. Così i suoi successori Adalgero (1031-1072) e Eriberto (1080-1082). Certo nei secoli XI e XII sempre più i vescovi assunsero il carattere di vassalli diretti dell’Impero. Ne conseguiva la partecipazione a campagne militari e politiche lontane che, stremando in gigantesche competizioni le loro energie e i redditi della diocesi, senza soddisfazione alcuna della città, interessavano solo pochi membri della «curia vassallorum». Ciò avviene in sintonia con la storia del patriarcato di Aquileia, il cui soglio pervenne in mano a famiglie tedesche, legate alla grande politica imperiale germanica, rimanendovi fino all’ elezione del patriarca Gregorio (1251-1269).
Il dissidio tra il vescovo e la cittadinanza si delinea, si acuisce e prende forma.
Destreggiandosi abilmente, i cittadini ottengono via via privilegi e riconoscimenti alla loro collettività, che, in pieno feudalesimo, è ormai un ente di fatto, non tutelato dai pubblici poteri.
In quest’oscuro periodo, nel quale cade il tramonto d’un assetto antico e rimpianto sempre, si formano e si stringono i nuovi interessi e i nuovi vincoli, si foggia e si rassoda la «civitas» novella. E’ peraltro noto che il Comune italiano non fu mai in possesso di tutti gli elementi originari che formavano la sovranità, ma che si appagava di un certo numero più o meno esteso di diritti sovrani, i quali garantivano lo sviluppo di un’ampia autonomia, senza raggiungere l’indipendenza assoluta: la piena sovranità fu conquistata solo tardi, da pochi Comuni e quando già il diritto comunale era in decadenza.
A Trieste già nel X secolo dunque accanto al vescovo signore esisteva una collettività abbastanza forte per essere apprezzata quale cooperatrice e fiancheggiatrice, con voce autorevole nel capitolo e nella curia dei vassalli vescovili. Negli scarsissimi documenti dell’epoca sono menzionati di solito il vescovo, o un suo ufficiale, e i rappresentanti della città.  (G.B.)

Le Monete di Trieste

 

Le Monete di Trieste

Giulio Bernardi

 

 

La prima Moneta di Trieste

La “monetazione della zecca di Trieste” consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo. Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia. Perché in questa città allora così piccola (4800 abitanti) si sentì il bisogno di fabbricare moneta propria? Inoltre, la gelosia con cui i vescovi di Trieste conservarono il loro diritto di zecca, il fatto che esso venisse esercitato (dal 1253 al 1257) dal Comune che lo deteneva in pegno, il prolungarsi nel tempo (fino all’inizio del Trecento) della continuità di emissioni, la grande quantità di pezzi emessi che si arguisce dalle numerose varianti di conio, sono elementi che concordano nel dimostrare che la monetazione triestina fu, in ambito locale, economicamente importante. In numerosi documenti dell’epoca troviamo la memoria che, anche dopo che Trieste ebbe moneta propria, qui le monete allogene continuarono a circolare insieme a questa e quasi tutti i ripostigli rinvenuti ne danno conferma. Nell’urna di San Servolo, riaperta in occasione della solenne ricognizione del 1986, sono state trovate monete duecentesche, ma nessuna di esse era triestina.

Trieste Medievale - Denari triestini pubblicati da Ludovico Muratori

Le emissioni monetarie di Aquileia, Trieste, Latisana e Lienz danno l’impressione di essere prodotte dalle stesse mani, certamente con le medesime tecniche. I rapporti politici tra i patriarchi di Aquileia e i vescovi di Trieste non inducono a pensare che, per questi ultimi, si trattasse di imitazioni non autorizzate o illegali. In questo senso certamente non danno spazio a congetture le analisi ponderali e qualitative delle serie parallele. La somiglianza dei tipi fu già osservata dagli studiosi del passato, anche se essi non ne trassero tutte le conseguenze. La fabbricazione delle monete, eseguita da artigiani specializzati riuniti in confraternite, era una cosa distinta dalla loro emissione, che veniva «preconizzata» cioè bandita a viva voce dal «praeconius» nelle pubbliche piazze, per conto dell’autorità. Ponendo attenzione sull’interazione di questi due momenti – fabbricazione ed emissione – ci accorgeremo che è molto probabile che le confraternite di zecchieri avessero una parte determinante nel promuovere le emissioni di monete, nello stesso modo che, oggi, una fabbrica di medaglie stimola i committenti a fare ordinativi per incrementare la sua produzione. Riguardo la monetazione duecentesca della zona che ci interessa, a nordest della Repubblica di Venezia, sappiamo (da documenti coevi e da quelli successivi che possiamo ritenere utili anche per il periodo che consideriamo, che essa non veniva gestita direttamente dall’autorità emittente, bensì era appaltata a confraternite di artigiani. Chi otteneva l’appalto corrispondeva al signore un utile percentuale. Ai fabbricanti venivano però tassativamente imposte le qualità intrinseche e anche quelle artistiche delle monete, sottoposte a regolari e rigorosi controlli. Tutti i problemi relativi all’approvvigionamento del metallo, alla manodopera, all’organizzazione della produzione erano a carico dei fabbricanti. L’autorità emittente ne traeva il vantaggio di poter usare numerario proprio e di avere un immediato controllo sul patrimonio liquido dei sudditi: ciò facilitava o meglio rendeva possibile l’esazione delle tasse. Un consistente vantaggio per il committente era la percentuale del coniato che i fabbricanti erano tenuti a versare al sovrano. Non indifferente era il beneficio legato al prestigio ed alla buona fama che potevano derivare da prodotti di qualità e di gradevole aspetto, adatti a tramandare nei secoli la memoria di un nome e di un sistema politico. Assai più immediato e capitale era l’interesse del fabbricatore, perché dalla decisione del sovrano di emettere monete dipendeva tutta la sua vita economica. È facile dunque immaginare quanto le confraternite di zecchieri si dessero da fare per convincere le massime gerarchie politiche della convenienza di emettere monete. Dove mancava o era debole la potenza economica e politica per imporle e diffonderle in ampie province, era necessario sopperire con la bontà del titolo e la bellezza e l’originalità del conio. È probabilmente questo il caso di Trieste. Il numero complessivo di monete triestine a me note è di poco superiore a 1600 (ho potuto averne le fotografie di 1457). Forse qualche centinaio di esemplari che la mia indagine non ha raggiunto sono ancora sparsi nel mondo. Il totale delle monete superstiti è probabilmente inferiore a duemila pezzi. Il numero dei coni identificati (237 d’incudine e 375 di martello) lascia supporre un volume di produzione complessivo di qualche milione di pezzi. E’ dunque sopravvissuto, dopo sette secoli, meno di un millesimo delle monete emesse. “Scritti sulle monete triestine”. Già nel Seicento gli storici si occuparono di monete medioevali triestine: il canonico Vincenzo Scussa (1620-1702), nella sua «Storia Cronografica di Trieste» del 1697 vi fa cenno. L’anno seguente il carmelitano scalzo Padre Ireneo della Croce (1625-1713), nella sua «Storia di Trieste», scrive di denari triestini, dandone perla prima volta riproduzione grafica. Nell’edizione del 1881, in cui l’opera di Ireneo della Croce venne pubblicata nella suainterezza, leggiamo ancora di denari triestini nel terzo volume. Ludovico Muratori nella sua ventisettesima dissertazione del 1739 (pag. 715-717nell’ edizione del 1774), riportata anche dall’ Argelati (I pag. 95-96) descrive nove denari triestini. Il Padre F. Bernardus M. de Rubeis nella sua prima dissertazione «de Nummis Patriarcharum Aquileiensium» (Venezia 1747, anche in Argelati 1750) pubblica a pag. 101 e sulla tavola 5 un denaro di Volrico (VM), con la nota che si trattava di soldo da dodici piccoli. Giangiuseppe Liruti di Villafredda nella sua dissertazione «Della moneta propria, e forastiera ch’ebbe corso nel Ducato di Friuli dalla decadenza dell’Imperio Romano sino al secoloXV», pubblicata a Venezia nel 1749, e l’anno dopo nel II volume dell’Argelati, dedica il capitolo XXIII (pag. 189) alla Moneta di Trieste.

Nella zecca, i coni della zecca triestina, come quelli di Aquileia, appaiono fabbricati da due categorie di operai: i maestri e gli allievi. I primi si distinguono per esattezza di tutti i particolari, per la particolare grazia e armonia del disegno, per la gradevolezza e la nitidezza dei contorni. I secondi danno l’impressione di minore esattezza, di opera maldestra e frettolosa. Le differenze sono tuttavia assai ridotte perché ambedue le categorie di artisti adoperano, nel fabbricare i coni, gli stessi punzoni che, in certi casi (denaro di Arlongo con Tempio e Santo AT) non si limitano a singoli particolari, ma comprendono intere figure. La somiglianza di ogni particolare con le parallele monete patriarcali conferma la fabbricazione dei coni delle due zecche dalle stesse mani. Come più tardi codificato da Cellini, nella zecca si preferiva fare ricorso, per fabbricare i coni, a punzoni della massima esattezza, piuttosto che al cesello. Si rendevano in questo modo particolarmente difficili le imitazioni, perché a monte della fabbricazione dei coni occorreva tutta un’attrezzatura professionale, sorretta da grande esperienza specifica. Nessun conio fu rimpiazzato finché era ancora integro e adoperabile. Quando, per l’uso, era diventato inutilizzabile, veniva distrutto e sostituito. (G.B.)